mercoledì 10 maggio 2023

L'omicidio di Giuseppe Fanin

Giuseppe Fanin nacque nel 1924 nella borgata Tassinara, poco fuori San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna, dove la famiglia, di fede cattolica, si trasferì dal paese veneto di Sossano nel 1910.

Giuseppe Fanin

Prestò il servizio militare della Repubblica Sociale Italiana nella Divisione San Marco, come artigliere, e venne inviato in Germania per il relativo addestramento.

Si ammalò di appendicite, per la quale fu operato e gli fu poi permesso di rimanere in convalescenza fino al termine della guerra, grazie soprattutto alla condiscendenza di un ufficiale medico.

Si laureò in Agraria a Bologna nel febbraio 1948 e si fidanzò con Lidia Risi.

Divenne segretario provinciale delle ACLI (Associazione dei Cristiani Lavoratori) e in tale ruolo si impegnò nel proporre al mondo contadino un innovativo progetto di riforma agraria, che introduceva un contratto di compartecipazione individuale, grazie alla quale i coloni avrebbero potuto gradualmente acquistare i poderi, diventandone così proprietari.

Tale progetto venne immediatamente osteggiato dal PCI, che voleva invece ritornare ai concetti espressi nel famigerato biennio rosso del 1919 – 1920 in cui i comunisti erano fautori degli espropri proletari e della collettivizzazione forzata, in applicazione del principio marxista e sovietico secondo cui “la terra non si compra ma si prende con la forza”.

Giuseppe Fanin divenne così il nemico numero uno del partigianato comunista, il quale anche a guerra finita intendeva imporre il modello del PCI a tutti i costi, nel pieno disprezzo della volontà popolare e della Democazia.

Il giovane fu oggetto di pesanti intimidazioni e di tentativi di pestaggio, in seguito ai quali gli venne consigliato da Giovanni Elkan, segretario della DC bolognese, di munirsi di una pistola. 

Fanin rispose facendogli vedere un rosario che teneva sempre in tasca.

Il PCI bolognese diede il via ad una serie di agguati contro i sostenitori di Fanin, aggredendo platealmente i contadini cattolici e malmenando le lavoratrici che erano ostili alla leghe rosse.

Con la stessa arroganza, alimentata dalla violenza comunista, la Lega braccianti di San Giovanni in Persiceto, emanazione del PCI, affisse in tutto il paese dei manifesti che avevano lo scopo di insultare i sindacalisti democristiani.

Il testo di quei manifesti era il seguente:

La mano ossuta degli agrari, appoggiata dagli organi di Governo, stretta a quella dei servi schiocchi tipo Fanin, Bertuzzi e Ottani, tenta di stendersi di nuovo rapace nelle nostre campagne per dividere i lavoratori e instaurare un regime di sfruttamento e di oppressione poliziesca di tipo fascista”.

La sera del 4 novembre 1948, dopo che Fanin ebbe accompagnato a casa la fidanzata, si avviò in bibicletta verso casa, vero le 21,30, quando fu fermato da un individuo corpulento che lo aveva seguito fino a quel punto.

Il giovane agronomo fu oggetto di una vigorosa sprangata da parte dello sconosciuto, per proteggersi dalla quale ricevette un colpo ad una mano che si fratturò nell’impatto.

Altri due individui, parte di un agguato che evidentemente era stato pianificato e premeditato, balzarono fuori da un cespuglio e iniziarono a colpirlo ripetutamente con sprangate, calci e pugni, spaccandogli il cranio e accanendosi con ferocia bestiale fino a che il giovane non fu ridotto in fin di vita, poi lo lasciarono agonizzante sul terreno e se ne andarono tranquillamente.

Fanin venne trovato dopo circa mezz’ora da un amico che passava di lì per caso e che lo fece portare all’ospedale di San Giovanni, dove però giunse in stato di coma, morendo sotto i ferri del chirurgo che tentò di salvarlo.

La Democrazia Cristiana accusò apertamente il PCI di aver fomentato un clima di violenza tale da aver prodotto un risulatato così tragico, ma lo squallore comunista si palesò affermando, per bocca di Davide Lajolo, lo squallido vice direttore dell’Unità, l’organo di informazione del PCI, che Fanin era un provocatore.


Il bieco attivista comunista Adorno Sighinolfi fu accusato di istigazione a delinquere dalla Magistratura perché prima del delitto aveva affermato pubblicamente:

Fanin è un cristiano crumiro che bisogna far fuori perché è la rovina di noialtri, bisogna accopparlo”.

La macchina del fango comunista palesò la sua essenza criminale delegando al deputato Giancarlo Pajetta il compito di operare uno squallido sciacallaggio sotto forma di comizio, durante il quale l’oratore proclamò che gli aggrediti erano i comunisti, oggetto di campagne di stampa menzognere che sventolavano lo spettro del triangolo della morte in Emilia.

Nel frattempo, il Maresciallo Masala che in seguito alle indagini sull’omicidio stava interrogando il sospettato Gino Bonfiglioli, ex partigiano e segretario del PCI locale, oltre che Sindaco del Paese, ottenne da lui una piena confessione.

Bonfiglioli ammise di essere il mandante dell’aggressione a Fanin, precisando che non ordinò ai sicari di fracassargli la testa, ma solo di “massaggiarlo per bene senza esagerare”.

Lo squallido Sindaco comunista fece i nomi dei tre assassini, tutti braccianti agricoli iscritti al PCI:

1) Evangelisti Renato, di anni 26;

2) Lanzarini Gian Enrico, di anni 22 (l’individuo corpulento che sferrò la prima sprangata alla testa di Fanin);

3) Morisi Indrio, di anni 20.

Al processo contro i tre criminali comunisti il PCI si tenne alla larga, pochè era troppo sconveniente di fronte all’opinione pubblica riconoscere il proprio ruolo di mandante politico, ma squallidamente non ritirò mai la tessera di iscritto al partito a Bonfiglioli.

Giancarlo Pajetta, lo sciacallo che aveva consapevolmente tentato di mistificare l’andamento dei fatti, arringando la folla, fu costretto dalla plateale evidenza di colpevolezza dei comunisti assassini a stare in silenzio, chiudendosi in un omertoso mutismo.

Gli imputati furono condannati all’ergastolo dalla Corte di Assise dell’Aquila per omicidio premeditato aggravato, ma in seguito il PCI si appellò all’amnistia Togliatti, chiedendone l’applicazione per i tre comunisti.

La pena venne ridotta a 23 anni di carcere, ma ne scontarono solo 15 grazie al perdono loro concesso dai familiari della loro vittima, Giuseppe Fanin.

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Tratto dal libro:
"Le brigate assassine del partigianato comunista nella bassa bolognese"
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Dissenso
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lunedì 20 febbraio 2023

IRMA BANDIERA: la bufala comunista

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Come oramai tutti sanno, i beceri dictat della vulgata resistenziale comunista hanno sempre imposto stereotipi di riferimento creati ad hoc per autoincensarsi e per mostrare una realtà addomesticata  e palagiata che nulla ha a che vedere con la reale essenza dei fatti storici.

L’ANPI, che da sempre è in sintonia con i peggiori criminali del partigianato comunista italiano, è sempre stata in prima linea sia per realizzare e costruire falsi storici che per negarne altri, decidendo arbitrariamente quale fosse il confine fra la lotta al fascismo e il crimine stragista figlio dell’odio che continuò a trasudare dalle formazioni garibaldine nel dopoguerra, ad armi deposte.

Il comunismo si è macchiato di una serie infinita di crimini, anche in Italia, imperversando nei territori orientali della penisola come complice di tito, il massacratore delle foibe, nell’intento di trasformare la Nazione in un satellite sovietico.

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Palmiro Togliatti, idolatrato ancora oggi dall’ANPI, e vezzeggiato con l’appellativo di “il Migliore”, uccise più comunisti e compagni di sinistra, come anarchici o appartenenti a correnti non allineate all’ortodossia staliniana, dell’apparato fascista in tutto il suo ventennio di potere.

ANPI però ha sempre deliberatamente omesso di parlarne, poiché impegnata a creare flasi miti ed eroi, da consacrare come apoteosi comunista sull’altare del resistenzialismo.

E’ nato così anche il falso mito di Irma Bandiera, a cui il Comune di Bologna ha dedicato una via della Città, traendo linfa vitale dal racconto di Pietro Secchia, il famigerato comunista che sosteneva tesi rivoluzionarie dopo l’armistizio dell’8 settembre.

Lo stesso Secchia, in qualità di ex signore della guerra, fu infatti curatore di una “opera letteraria” intitolata “Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza”, in sei volumi, pubblicata dalla casa editrice milanese del partito Comunista “La Pietra”.

Alla voce Irma Bandiera si legge :

1  -  (…) Sposa e madre affettuosa (…)

2  -  (…) straziata da orribili ferite, senza che i suoi torturatori riuscissero a strapparle sotto la tortura i nomi dei suoi compagni di lotta (…) dopo 6 giorni di sevizie lei non parla, e i fascisti le cavarono gli occhi (…)

3  -  (…) fu trasportata davanti alla casa dei suoi genitori e le fu detto “Ecco la tua casa, dentro ci sono tua madre e tuo padre. Non li vedrai più se non parli (…)

(…)

La verità è invece la seguente, come risulta dagli studi storici compiuti da Maurizio Ravaglia e riportati nel suo libro: “Resistenza bugiarda”.

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1  -  Il racconto di Secchia inizia con una menzogna, poiché Irma era fidanzata e non sposata.

Era nubile e non aveva figli, come risulta anche dal necrologio scritto su “il Resto del Carlino” del 21 agosto 1944, che riporta:

“Lascia nel dolore i genitori, la sorella nastia, il cognato Sergio Marchesini, il fidanzato lontano e i parenti tutti”.

Nonostante ciò l’ANPI scrisse ancora nel 2015, durante un programma commemorativo, che Irma Bandiera era moglie e madre affettuosa”.

I manipolatori che infestano la vulgata resistenziale comunista hanno fatto anche di peggio, inventandosi una finta lettera che gli aguzzini di Irma Bandiera le avrebbero permesso di scrivere.

Tale lettera è stata inserita nella documentazione inerente Irma Bandiera sul sito ufficiale del Comune di Bologna, nel portale “Storie e memoria di Bologna”, rimanendovi fino all’estate del 2017.

Ecco un estratto del famigerato e squallido tentativo di manipolazione, da cui si evince con assoluta certezza che sia in atto una costante disinformazione, criminale e menzognera:

(…) Caro figlio, non posso scriverti tutto quello che sento, ma quando sarai grande ti immedesimerai nella mia situazione, allora capirai (…)

(…) Mio caro marito, il mio ultimo respiro sia ancora di ringraziamento al destino, che mi ha concesso di amarti e di vivere sette anni con te (…)

Essendo Irma nubile e senza figli, lo scritto si commenta da solo …

I comunisti si inventarono il fatto che fosse “sposa e madre affettuosa”, per fare leva sul fatto che una tragedia familiare avrebbe aumentato a dismisura la portata dell’evento tragico..

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-  La vulgata resistenziale comunista, ripresa dai seguaci metamorfizzati che si raccolgono attorno alle nostalgie staliniste di Togliattiana memoria espresse dall’ANPI, e pervasa da un’enfasi caratterizzata da un delirio di onnipotenza che la contraddistingue, insiste a mentire sapendo di mentire.

Nella fattispecie, continua a riferire di torture sul corpo di Irma Bandiera, protrattesi per giorni e giorni, “fino al punto di ammazzarla”, non prima di averla accecata perché “guardava gli aguzzini con sguardo sprezzante” !

E ancora : “Per sette giorni e sette notti l’hanno torturata facendole l’indicibile, strappandole perfino gli occhi”!

Da questa enfatica ricostruzione, con cui la versione comunista si scaglia contro il mostro fascista e torturatore, si evince che il corpo di Irma, dopo un periodo di sei giorni di ininterrotte sevizie e torture dovrebbe essere martoriato e ridotto ad un ammasso di ferite, contusioni, fratture, e quant’altro, compreso la enuclkeazione delle orbite oculari.

Ebbene tutto ciò si è rivelato completamente falso!

L’esame medico autoptico effettuato dal Professor Benassi sulla salma ha rivelato infatti quanto segue:

Le ipostasi (chiazze formatesi dal ristagno di sangue) sono molto scarse e risiedono dal lato anteriore del corpo.

Il volto, il petto e le braccia sono molto imbrattate di sangue essiccato.

Sulla faccia anteriore delle ginocchia aderiscono alla cute granelli di sabbia”.

Eppure, dopo tanti giorni di incredibili sevizie dovrebbero esserci almeno delle ecchimosi, dei lividi, delle contusioni, o altri segni come traumi, lesioni, ferite più o meno superficiali.

Invece vennero trovati i fori di due proiettili alla testa che provocarono una morte istantanea, e un altro foro prodotto anch’esso dallo sparo di una rivoltella che la colpì ad un’anca.

Irma Bandiera fu fotografata da Filippo D’Ajutolo, un medico che raccoglieva le foto degli antifascisti uccisi durante la guerra civile, e in tre immagini della ragazza si vede che né il viso e nemmeno il corpo sono sfigurati da  segni di sevizie e percosse.

Il viso è rovinato non dalle sevizie che la vulgata resistenziale continua a presentare nel suo racconto, bensì dai proiettili sparati a distanza ravvicinata.

Le orbite oculari non presentano segni di enucleazione degli occhi, smentendo anche questo raccapricciante particolare.

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3   -  Anche lo scrittore Aldo Cazzullo nel suo libro “Possa il mio sangue servire” ripete il ritornello secondo cui Irma Bandiera “abita in un palazzo al Meloncello” e conferma che gli assassini “la portarono davanti a casa sua”.

In realtà, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un falso storico, sapientemente elaborato (ma non abbastanza) dalla vulgata resistenziale comunista.

Irma Bandiera abitava con i genitori in via Gorizia, una parallela della via Emilia, e non al Meloncello, come indicato da ANPI e dai suoi “storici” manipolatori.

Quindi tutto il racconto secondo cui i fascisti le avrebbero detto “qui ci sono i tuoi genitori, e se non parli non li rivedrai mai più”, precedentemente  alla sua esecuzione a colpi di mitra, in realtà è falso.

L’abitazione era in via Gorizia, mentre il suo cadavere fu trovato al Meloncello, contraddicendo la ricostruzione comunista.

C’è inoltre un elemento inquietante che incrocia le dinamiche esistenziali della famiglia di Irma Bandiera con quelle criminali del partigianato comunista bolognese.

Mi riferisco al fatto che alcuni parenti di Argentina Manferrari, la mamma di Irma Bandiera, furono trovati morti, interrati in due buche, a Funo di Argelato, zona in cui imperversava a quel tempo il famigerato assassino comunista Luigi Borghi, alias “Ultimo”, appartenente alla 7a Brigata Gap.

Le vittime erano la sorella Brunilde e il cognato Giuseppe Marzocchi, che vennero prelevati a casa loro, a Funo di Argelato, da tre individui armati, i quali rubarono anche del denaro, gli orologi da polso, e due biciclette, la sera del 31 marzo 1945.

Dopo oltre un anno, a guerra finita, quando a Bologna era Sindaco il comunista Giuseppe Dozza, la mamma di Irma ricevette un documento redatto da Luigi Borghi, alias “Ultimo”, in cui dichiarava:

Il 31 marzo 1945 è avvenuta la morte dei coniugi Marzocchi Giuseppe e Manferrari Brunilde, rei confessi di aver fatto pervenire la delazione in collaborazione di Rapparini e Cussini Carlo da San Giorgio di Piano, a Tartarotti che la nipote Irma Bandiera sfollata presso di essi era staffetta e combattente partigiana.

Delazione che provocò l’arresto e l’assassinio di Irma Bandiera, dopo sevizie e torture. (…)

Il Tribunale, successivamente, accordò grande benevolenza a Borghi, che fu sicuramente l’esecutore materiale del duplice delitto, accordandogli la non punibilità per ciò che venne considerata una azione di guerra (a meno di un mese dalla pace del 35 aprile 1945).

La mamma di Irma accusò il fascismo dell’uccisione della figlia, in seguito alla delazione del cognato, il quale aveva ricevuto da Irma l’incauta confidenza di essere appunto una staffetta partigiana.

Ciò che non è stata presa in considerazione è l’ipotesi che Borghi, oltre ad aver eliminato i coniugi delatori, abbia punito anche Irma, responsabile di aver tradito la “consegna del silenzio” che legava a filo doppio gli appartenenti alle formazioni clandestine del partigianato comunista.



Sappiamo che “Ultimo” fu responsabile di una lunga e impressionante catena di omicidi e di stragi efferate, di torture e sevizie, di stupri e mutilazioni, di rapine e furti, che ho raccolto in un mio post al seguente Link:

 LUIGI BORGHI

A quel tempo l’appartenenza ai Gap comunisti comportava l’osservanza di rigide regole da seguire ciecamente, e il fatto che Irma avesse rivelato incautamente allo zio la sua appartenenza al gruppo partigiano era sufficiente ad essere condannata a morte.

E’ probabile che la vulgata resistenziale che tanto piace ai veterocomunisti dell’ANPI, dei centri sociali e dell’universo anarco insurrezionale marxista, abbia costruito una vicenda ex novo, dopo che Borghi e la sua accozzaglia di garibaldini asassini avevano trucidato la giovane Irma, approfittando di tale omicidio per addossarne la colpa al fascismo.

Altrimenti viene da chiedersi :

Perché ancora oggi si raccontano tante menzogne ?

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Dissenso

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giovedì 9 febbraio 2023

Il Festival di Sanremo e la macchina del fango veterocomunista

Benigni con il leader
comunista Berlinguer
nel 1983

Da kermesse musicale, interprete della canzone italiana, Sanremo si è trasformata quest’anno in uno strumento di diffusione dell’odio comunista, azionato e usato come macchina del fango per ribadire i famigerati assiomi della disinformazione cara ai seguaci di Togliatti.

Gli interpreti della vulgata veterocomunista odierna che appaiono in continuità con l’anacronistico e nostalgico, quanto metamorfico universo marxista di epoca staliniana, sono stati nel contesto sanremese Roberto Benigni e Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez.

Il primo lo ha fatto ricorrendo alle sue indubbie doti di istrione e di manipolatore, affascinando la platea dell’Ariston e quella televisiva con la sua dialettica e con talentuose elucubrazioni intellettuali sulle dinamiche relative alla nascita della nostra Costituzione.

Peccato però che ogni sua parola fosse intrisa di demagogia e di lusinghe di parte, e che l’intero suo discorso fosse finalizzato ad imporre una visione subdolamente orchestrata della realtà dei fatti, travisata e manipolata ad uso e consumo delle sinistre.

Benigni ha citato come padri della Costituzione sia Sandro Pertini che Nilde Iotti (la concubina di Togliatti), enfatizzando il loro ruolo nella costruzione di una Italia democratica.

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L’istrione toscano ha però deliberatamente omesso di dire che Pertini era un partigiano stalinista e assassino che il 30 aprile 1945 ordinò la fucilazione dei due famosi attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, in quanto aderenti alla Repubblica Sociale e sospettati di appartenere ad un gruppo di torturatori denominato “banda Kock”, accusa che cadde post mortem.

Pertini era contornato da criminali comunisti del calibro di Giuseppe Marozin (omicidi, stupri, e rapine) a cui egli stesso aveva conferito l’autorità del comando nelle famigerate brigate partigiane Matteotti, legate al Partito socialista.

Durante il procedimento penale a suo carico per quei delitti Marozin incolpò Pertini di aver dato l’ordine di fucilare i due attori pronunciando le precise parole: “Fucilali, e non perdere tempo !”, e affermò inoltre che Luisa Ferida “non aveva fatto niente, veramente niente!”.

Questo era lo squallido “ambiente politico” tanto caro ai gruppi partigiani cui apparteneva Sandro Pertini, intriso di sangue, di omicidi e di fanatismo marxista.

Ebbene sì, perché Sandro Pertini, mitizzato come personaggio amato dagli italiani, dalla gente e dai bambini, il Presidente con la pipa, era un fervido ammiratore di Stalin, nonostante il fatto che lo statista sovietico fosse (e rimane) uno dei più efferati criminali di tutti i tempi.

Alla morte di Stalin, nel 1953, l’ex partigiano Pertini, oggi osannato da Benigni, dichiarò sull’Avanti, il quotidiano socialista di quei tempi:

Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo.

L'ultima sua parola è stata di pace. (...)

Si resta stupiti per la grandezza di questa figura...

Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin.

Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto.” 

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Pertini si schierò quindi ufficialmente a fianco di colui che aveva prodotto decine di  milioni di vittime innocenti deportando intere popolazioni nei gelidi lager della Siberia, condannandole a morte per fame, per freddo o per le torture che il comunismo infliggeva alle sue vittime.

L’antifascista Pertini va ricordato per questo, per essere stato ammiratore di un criminale e di avere lui stesso interpretato il ruolo di artefice di una parossistica emulazione, in nome di un becero antifascismo.

La sua arroganza intellettuale unita alla sua sudditanza psicologica e politica nei confronti di Mosca continuarono anche nel dopoguerra, palesando comportamenti che vanno al di là del semplice condizionamento mentale, identificandolo come persona ostile ai diritti umani e alla libertà dei Popoli.

Quando, paradossalmente, divenne Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini manifestò chiaramente la sua dipendenza dall’odio e dalla violenza marxista, approfittando della sua posizione istituzionale per concedere la grazia a Mario Toffanin (alias Giacca), un criminale partigiano che aveva ucciso ben 17 persone, partigiani della brigata Osoppo, in quello che fu chiamato l’Eccidio di Porzus.

Nel 1978, in pieno delirio di accondiscendenza con il crimine, Pertini graziò anche Giulio Paggio, un altro delinquente comunista appartenente alla famigerata “Volante rossa”, responsabile di una lunga lista di omicidi in Lombardia, in Emilia e nel Lazio.


PERTINI: il volto di
un assassino
Riguardo a tutto ciò Benigni si è ben guardato di fare il benchè minimo accenno, stando ben attento a seguire un percorso precedentemente delineato e finalizzato alla distorsione di fatti storici incontestabili e per questo motivo tenuti accuratamente nascosti.

Aggiungo che alcuni di quei cosidetti “padri fondarori” della Costituzione repubblicana italiana, furono invece traditori della Patria poiché legati al comunismo sovietico da cui venivano patrocinati con flussi costanti di denaro.

Mi riferisco a criminali del calibro di:

Celeste Carlo Negarville,

Francesco Moranino,

Giancarlo Pajetta,

Giorgio Amendola,

Giovanni Roveda,

Luigi Longo,

Nilde Iotti,

Rita Montagnana Togliatti,

Vincenzo (Cino) Moscatelli.

Fedez saluta a
 pugno chiuso
Ognuno di questi personaggi ha un oscuro passato criminale che Benigni si è premurato di nascondere, omettendo qualsiasi citazione nei loro riguardi che potesse contrapporsi al delirio di beatificazione imposto dal gotha resistenziale, Anpi in testa.

Per quanto riguarda Fedez, va detto che il suo operato, totalmente avulso da qualsiasi anelito intellettuale, vista la sua obiettiva incapacità di profferire elaborazioni culturali, appare come quello di semplice operatore e addetto alla manovalanza della macchina del fango, abitualmente usata come strumento per demolire l’avversario politico con argomentazioni strumentali.

Se il rapper milanese scavasse nel profondo della sua retrospettiva evolutiva, potrebbe scoprire che le fasi e le dinamiche che hanno tratto linfa vitale nel percorso formativo che lo ha poi contraddistinto, affondano le radici nello squallido e becero retaggio poltico della sudditanza politica al Male assoluto.

Parafrasando una parabola del Vangelo, possiamo affermare che Fedez si è arrogato il diritto di spargere odio e fango contro ciò che per lui rappresenta una pagliuzza nell’occhio di un suo simile, senza vedere la trave che sporge dalla sua stessa orbita oculare.

Probabilmente il fatto di palesarsi come paladino del comunismo (anche se è un plurimilionario che vive nel lusso) è per lui, come per Benigni, o per altri pseudo intellettuali del passato come Dario Fo, Pablo Picasso, Renato Guttuso, Alberto Moravia, un modo per costruire una immagine di sé che vorrebbe essere edificante, eroica, da imitare, se non fosse per il fatto che però tutto ciò è frutto di mistificazione e falsificazione.

La Destra di Governo è insediata al potere con un ampio consenso popolare e ciò genera un malessere diffuso nell’apparato politico sinistroide, il quale ricorre a squallidi mezzucci per tentare di delegittimare, spargendo odio, gli avversari politici, considerati null’altro che possibili bersagli.

A Benigni e a Mr. Ferragni (Fedez) non interessa il fatto che la maggioranza della popolazione italiana abbia consacrato legittimamente la destra alla guida della Nazione, e che in questo modo abbia deciso di reagire alla violenza istituzionale e all’arroganza sia grilina che veterocomunista espresse da personaggi come Zingaretti, Letta, Serracchiani, Conte, Fico, Di Maio, solo per citarne alcuni.

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Sanremo 2022  -  I  "Rappresentanti di lista" salutano a pugno chiuso
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Il Popolo è sovrano, anche quando gli apostoli della disinformazione tentano di carpirne la buona fede, sproloquiando con monologhi come quello di Roberto Benigni o imperversando con manifestazioni di odio come quella di Fedez.

Va detto che la performance sanremese dell’istrione, comico, regista e sceneggiatore, ex Premio Oscar al miglior attore nel 1999, si è svolta alla presenza di Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica italiana, di cui non possiamo dimenticare il ruolo svolto nel recente passato della politica nazionale.

Come tutti sanno, Mattarella è stato il Presidente che, nel suo primo mandato, ha impedito al Popolo italiano di recarsi alle urne per votare, preferendo accompagnare la sinistra, mano nella mano,  a ricoprire un incarico di Governo non legittimato da alcuna elezione.

Ora però una cosa è certa, e cioè che l’Italia è ridiventato un Paese democratico e libero, nonostante loro.

Dovranno farsene una ragione.

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Dissenso

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domenica 5 febbraio 2023

Il comunista Dante Stefani

E’ morto all’età di 95 anni Dante Stefani, dirigente di quel Partito Comunista e di quel partigianato garibaldino che seminarono lutti, sangue e terrore nei territori bolognesi, e non solo.

Grazie al partito divenne assessore al bilancio nella giunta presieduta da Guido Fanti nel 1970 e in seguito presidente di BolognaFiere, poi nel 1979 fu eletto al Senato dove rimase fino al 1987.

Nacque nel 1927 e fin da giovanissimo aderì alla Resistenza come membro delle brigate Garibaldi attive nel bolognese e teatro di premeditate azioni delittuose.


Dante Stefani  -  Scheda ANPI - Istituto Storico Parri


Va detto che in tale contesto molti degli assassini comunisti che parteciparono alle scorribande criminali dei garibaldini nel dopo guerra, ad armi deposte, in tempo di pace, furono poi condannati dalla Magistratura a pene che arrivarono anche all’ergastolo, ma quasi tutti vennero aiutati dalla dirigenza del partito comunista ad espatriare in Cecoslovacchia per vivere in stato di latitanza alla faccia della Giustizia italiana.

Le bande garibaldine, come la 36a brigata Garibaldi Bianconcini, la IVa brigata Venturoli (dove militò Stefani), e la IIa brigata Paolo, solo per citarne alcune, furono in prima linea nel compiere una lunga catena di delitti di odio e di crimini sanguinosi, con la compiacenza e lo sprone dei cosiddetti Commissari politici del Partito comunista Italiano.

Molti assassini vennero anzi premiati per la loro ferocia, fino a ricoprire incarichi pubblici o addirittura eletti nel ruolo di deputati in Parlamento, come nel caso, ecclatante, di Francesco Moranino.

Ricordo a chi legge che “Gemisto”, così era chiamato Moranino quando comandava il distaccamento “Pisacane” delle Brigate Garibaldi, e in seguito la 50° brigata Garibaldi, e ancora la XXIIa Divisione Pietro Pajetta, tutte rigorosamente comuniste, organizzò il massacro di 7 persone, premiando poi gli esecutori materiali della strage con la somma di trecento lire ciascuno.

Nel  1949 fu colpito da un mandato di cattura emesso dalla Magistratura, ma si diede alla macchia, protetto dal PCI, salvo poi ritornare una volta eletto in Parlamento nel 1953.

Nel 1955 l’assassino deputato comunista che siedeva sugli scranni del Parlamento italiano fu rinviato a giudizio per omicidio plurimo e grazie alla concessione dell’autorizzazione a procedere il processo penale ebbe un seguito che si concluse con la sua condanna all’ergastolo.

Nel processo di appello del 1957 la sentenza fu confermata ma il comunista stragista non fece nemmeno un giorno di galera perché il PCI e “Soccorso rosso” lo aiutarono ad espatriare, inviandolo in Cecoslovacchia presso “Radio Praga”, dove rimase fino al 1965, anno in cui il Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat gli concesse la grazia.

Va detto che in precedenza, nel 1958, anche il Presidente della Repubblica italiana Giovanni Gronchi, predecessore di Saragat, aveva commutato la pena da ergastolo a dieci anni di reclusione.

Al suo rientro in Italia l’assassino comunista fu accolto a braccia aperte dal PCI, che lo fece eleggere Senatore della Repubblica, carica che mantenne fino alla sua morte nel 1971.

Dante Stefani,  ex
Commissario politico
 del PCI

Negli anni del dopoguerra a Bologna era Sindaco Giuseppe Dozza (dal 1945 al 1966) e poiché a quei tempi nulla si muoveva senza il consenso esplicito del Partito comunista, viene da pensare  che il tanto osannato dirigente politico, definito come “il Sindaco di tutti” non fosse all’oscuro delle manovre criminali che il partigianato garibaldino locale interpretava quotidianamente.

I cosiddetti “commissari politici” (come Dante Stefani) che imperversarono nel dopoguerra, ubbidivano direttamente al PCI, e svolgevano un ruolo che aveva poco di diverso dalle famigerate “trojke” staliniane che seminavano sentenze di morte fra la popolazione dell’Unione Sovietica.

La disinformazione comunista e i seguaci di Togliatti, ancora ben attivi ai nostri giorni, hanno presentato la narrazione della vulgata resistenziale completamente falsata nella sua essenza, raccontando di eroi che in realtà erano criminali, e nascondendo i crimini e la ferocia che li avevano contraddistinti, insieme ad un odio insanabile.

I delitti, le stragi efferate, i furti e le ruberie, commessi da veri sciacalli al soldo di Togliatti e Longo, come nel caso dell’”Oro di Dongo”, oppure delle torture che precedettero le esecuzioni della famiglia Govoni, così come le esecuzioni di altri partigiani colpevoli di non essere allineati all’ortodossia stalinista, rappresentarono nell’immediato dopoguerra il biglietto da visita del partigianto comunista.

Gli Istituti storici della Resistenza, che avrebbero dovuto interpretare un ruolo di obiettività nel raccontare le vicende della guerra civile italiana dal 1943 al 1945, oltre che del dopoguerra, in realtà si incaricarono di fabbricare una versione adulterata e falsa dei fatti.

L’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia) comprende quegli Istituti sopra citati che in realtà non sono altro che fabbriche di colossali falsificazioni, affratellate da un culto malsano della Resistenza, offerta secondo stereotipi preconfezionati e adattati alle esigenze del Partito comunista.

Il simbolo di MORTE che
piace tanto ad ANPI e PD

Deus ex machina della vulgata resistenziale e delle relative imposizioni dogmatiche è senza ombra di dubbio l’ANPI, roccaforte degli stalinisti che traggono linfa vitale sia dal retaggio pseudo culturale e politico di Togliatti, definito con il vezzeggiativo di “il Migliore”, che dai veterocomunisti dei nostri giorni.

E’ anche sintomatico il fatto che nei siti dell’ANPI si trovino riferimenti a criminali assassini del partigianato comunista, ma solo in termini che ne glorificano l’operato, e che omettono deliberatamente i coinvolgimenti giudiziari, le condanne, la latitanza e quant’altro possa inficiarne l’immagine.

Appare quindi assolutamente inaffidabile l’intero impianto resistenziale così come viene presentato, compreso l’insieme di biografie e di documenti sapientemente manipolati.

Viene quindi da interrogarsi sul fatto che fosse prassi consolidata quella di omettere fatti, circostanze, e soprattutto responsabilità che riguardavano personaggi di spicco del partito comunista, come ad esempio il Sindaco Dozza, oppure Dante Stefani.

Oggi sappiamo che il Partito comunista operava per sviluppare un disegno eversivo con il quale intendeva trasformare l’Italia in un satellite russo, agli ordini dell’Unione Sovietica.

Togliatti era l’artefice del piano criminale, mentre le brigate Garibaldi costituivano il braccio armato con cui realizzare il disegno eversivo.

La volontà comunista si palesò apertamente con il tradimento del Partito nei confronti del Popolo e dello Stato italiano, nel momento in cui Togliatti e Longo dichiararono la loro volontà di lottare al fianco di Tito e dei comunisti jugoslavi per dare loro i territori istriani dell’Italia orientale che appartenevano di diritto alla Nazione italiana.

Il Trattato di Rapallo del 1920, conseguente alla vittoria italiana nella prima Guerra mondiale, sancì l’appartenenza della Venezia Giulia, dell’Istria e del Quarnaro al Regno d’Italia, ma le orde garibaldine comuniste italiane furono destinate, per ordine di Longo e Togliatti, a combattere in seno al IX Corpus d’armata titino, a fianco del comunismo slavo.

Togliatti e Tito, i due comunisti stragisti e assassini a colloquio...

Il tradimento comunista apparve palese in ogni suo aspetto, compreso il fatto che per interi decenni un fiume di denaro si riversò da Mosca nelle casse del Partito comunista italiano, nonostante il fatto che questo fosse insito nell’ambito parlamentare della Repubblica.

Tutto ciò, di per sé, costituì un tradimento comunista nei confronti della nazione, poiché gli ingenti finanziamenti russi legavano il PCI a doppio filo con Mosca, inducendo il partito di Togliatti ad agire non nell’interesse del Popolo italiano, ma in nome di Stalin.

Non a caso Togliatti, dopo aver interpretato il ruolo di Numero due del Comintern, ebbe a lui intitolata una città sul fiume Volga, in Russia, che prese il nome di Togliattigrad.

Quando nel 1930 Stalin concesse a Togliatti la cittadinanza russa, durante il XVI Congresso del Partito Comunista Sovietico, lo statista italiano dichiarò :

È motivo di particolare orgoglio aver lasciato la cittadinanza italiana perché come italiano sarei solo un miserabile mandolinista e nulla più.

Come cittadino sovietico sento di valere 10 mila volte più del migliore cittadino italiano”.

L’elenco dei traditori, degli assassini, dei ladri, e di coloro che impunemente stuprarono, mutilarono e torturarono esseri umani innocenti a guerra finita, è molto lungo, ed è composto proprio da quei personaggi che il PCI prima e l’ANPI poi hanno sublimato e presentato come esempi da seguire, come eroi e simboli di una Italia repubblicana e antifascista.

Viene spontaneo quindi fare dei confronti e dei parallelismi fra i vari personaggi indicati sia dall’ANPI che dai vari rappresentanti di quel partito, il PD, che trae le sue origini dal famigerato PCI.

Dante Stefani nell’immediato dopoguerra era poco meno che ventenne e membro effettivo del partigianato comunista.

Premesso che le squadracce comuniste garibaldine del bolognese si macchiarono di una serie infinita di crimini, di omicidi e di stragi, di torture e stupri, seguiti dall’immancabile occultamento dei cadaveri per coprire ciò che loro stessi sapevano essere un delitto contro l’umanità, e considerando che Stefani ne faceva parte e che era talmente legato al PCI da diventarne poi un “uomo chiave” ricoprendo incarichi di prestigio, oltre che essere amico di personaggi come Araldo Tolomelli (Sap) o Vincenzo Galletti (Gap), viene da chiedersi:

Possibile che il tanto osannato e defunto Dante Stefani non avesse alcuna responsabilità nei fatti e nelle strategie criminose del PCI di cui era membro iperattivo?

Gli archivi comunisti potrebbero dircelo, ma come sappiamo la gestione degli incartamenti relativi alla Resistenza e al dopoguerra sono appannaggio esclusivo di organismi come gli Istituti Storici pilotati dall’ANPI, per cui risulta evidente che per ora possiamo sapere solo ciò che i veterocomunisti vogliono che sappiamo.



Tutto ciò nel totale disprezzo della democrazia, della verità e della realtà dei fatti.

L’essenza comunista è proprio questo, e ci permette di dubitare su chiunque venga proposto all’attenzione delle masse come fulgido esempio da seguire e come modello di comunista.

Sappiamo bene cosa ciò possa significare…


Dissenso 

 

lunedì 23 gennaio 2023

PAVEL FLORENSKIJ

Pavel Aleksandrovich Florenskij nacque a Yevlach (nell’attuale Azerbagian) il 9 gennaio 1882.

Era figlio di un ingegnere delle ferrovie, Aleksandr Ivanovic, e di Olga Pavlovna Saparova, discendente d una nobile e colta famiglia armena.

Primogenito tra i fratelli e sorelle Julija (medico psichiatra), Elizaveta (pittrice e pedagoga), Aleksandr (geologo, archeologo ed etnografo, arrestato nel 1937 e fucilato nel lager di Sussuman, nella regione di Magadan), Olga, Raisa (pittrice) e Andrej (esperto di armamento militare pesante), Pavel divenne un sacerdote, distinguendosi anche come scienziato, enciclopedista, filosofo, teologo, fisico, matematico e ingegnere, specialista di materiali elettrotecnici.

La famiglia si trasferì a Tbilisi, in Georgia, dove dimorò a lungo e da cui Pavel si allontanò solo al compimento dei 18 anni di età per recarsi all’Università di Mosca, dopo aver concluso gli studi ginnasiali nella cittadina georgiana di Tiflis.


Seduti, da sinistra: il padre Aleksandr, la sorellina Raisa, Pavel, la sorella Elizaveta, la mamma Olga, e il fratellino Aleksandr.  In piedi: Olga Florenskaja, Elizaveta Pavlovna Melik-Beglyarova, e Lucy Glorenskaja

All'Università di Mosca studiò fisica e matematica (seguì i corsi di N.Bugaev, il padre dello scrittore Andrej Belyj) laureandosi nel 1904, ma rinunziò ad una prestigiosa cattedra universitaria per dedicarsi alla filosofia antica, seguendo i seminari di Nikolaj Sereevic Trubeckoj e L. Lopatin, come iscritto all’Accademia di teologia (dove svolse anche l’attività di insegnante) e, dopo aver conseguito la Licenza tale disciplina nel 1908, anno della morte del padre, divenne nell’aprile del 1911 sacerdote della Chiesa ortodossa senza però ricoprire alcun incarico parrocchiale.

Pavel e la moglie Anna Michaijlovna Giacintova

Il 25 agosto 1910 Pavel si sposò con Anna Michaijlovna Giacintova, dalla quale ebbe il primo figlio, Vasilij, nel 1911.

Il secondo figlio fu chiamato Kirill, mentre alla figlia più grande fu dato il nome di Olga, e ad altri due figli, fratello e sorella minori, rispettivamente quelli di Michail e di Maria Tinatin.

Il 5 aprile 1912 conseguì il Dottorato e il titolo di Magister in Teologia.

Dal 1912 al 1917 lavorò come segretario scientifico della commissione per la protezione dei monumenti d’arte e delle antichità del Monastero ortodosso Santissima Trinità Sergio Lavra (Trinity-Sergius), poi diresse la rivista Theological Bulletin (Messaggero teologico) e tenne lezioni di matematica e fisica presso l’istituto Sergio di Pubblica Istruzione.

Nel 1917 fu sacerdote a Sergiev  Posad, una città a circa 71 Km a nordest di Mosca.

Dopo la rivoluzione bolscevica, il nuovo regime dittatoriale e totatlitario impose la chiusura dell’Accademia Teologica di Mosca, costringendo Florenskij a rivolgersi verso una attività diversa, focalizzzatasi dal 1921 con l’insegnamento della ”teoria della prospettiva” all’Istituto superiore tecnico-artistico Vchutemas di Mosca, legato al proletkult, l’Organizzazione culturale-educativa proletaria che seguendo le teorie del critico marxista Aleksandr Bofdanov imponeva le basi di una cultura artistica scevra da condizionamenti borghesi.

Nel 1918 ottenne l'incarico di creare una commissione per la salvaguardia del Monastero di San Sergio, sopracitato.

Lavorò inoltre come ingegnere, nella fabbrica Karbolit, occupandosi della teoria della relatività e dei quanti, dimostrandi di essere un uomo dall’intelligenza straordinaria, in grado di unire le più alte divagazioni metafisiche con la disciplina matematica e l’ingegneria, la storia dell’arte con la filosofia, l’invenzione scientifica con la creazione artistica, la teologia con la semiotica pragmatista, sintattica e semantica, e la simbologia.

Pavel Florenskij era un uomo dotato di eccezionale cultura poliedrica, che riusciva a coniugare con ardite intuizioni le dinamiche della scienza e della fede, del cristianesimo e della cultura, della vita e del pensiero, anticipando lo sviluppo della cibernetica e contribuendo a diverse importanti scoperte scientifiche.

Nel 1919 scrisse una delle sue opere più interessanti, intitolata “La prospettiva rovesciata e altri scritti sull’arte” (tradotto in Italiano a cura di Adriano Dell’Asta e pubblicato da Adelphi).

Lo scritto verte sulla rappresentazione dello spazio nelle arti figurative e fu realizzato per il Comitato che si occupava della conservazione dei beni storico artistici del Monastero della Santissima Trinità di San Sergio, diventando un punto di riferimento per i corsi di Analisi dello Spazio nelle opere d’arte figurative e di Analisi della prospettiva che l’Autore tenne fra il 1921 e il 1924 presso la Facoltà Poligrafica Statale del VChUTEMAS di Mosca, l’Istituto Superiore per la Progettazione Industriale (analogo all’Istituto d’arte e design Bauhaus tedesco della repubblica di Weimar).

Florenskij lavorò dal 24 marzo 1925 come ingegnere capo del laboratorio di sperimentazione dei materiali da lui stesso creato, presso l’Istituto Nazionale di Elettrotecnica.

Nel 1927 iniziò a collaborare alla redazione dell'Enciclopedia Tecnica, ma nel 1931 dovette interrompere questa ed altre attività.

Il suo primo arresto avvenne il 21 maggio 1928, e in tale occasione fu condannato a tre anni di confino, da scontare nel villaggio di Skovorodino, ma la pena fu sospesa grazie all’intervento della ex moglie di Gorkij, Ekaterina Pavlovna Pekova.

Trascorse un periodo di relativa tranquillità, senza sapere a suo nome era già stato aperto un fascicolo di indagine in cui veniiva segnalato come una minaccia per il potere sovietico.

Il suo ultimo articolo, relativo alla interconnessione della fisica al servizio della matematica comparve nel 1932, poi il 26 febbraio del 1933 fu arrestato e imprigionato nella famigerata prigione moscovita della Lubjanka.

La colpa di Pavel, secondo gli inquisitori della GPU, la Polizia segreta staliniana, era quella di appartenere ad una organizzazione clandestina denominata “Partito del Rinascimento Russo”, in stretti rapporti con l’emigrazione bianca e in attesa di incontrare Hitler.

Il suo principale acccusatore era un giurista di nome Giduljanov, che seguendo un rituale già sperimentato dagli inquirenti, si autoaccusò chiamandolo in causa, salvo poi ritrattare dopo essere stati entrambi deportati, e asserendo di essere stato costretto a confessare, inventandosi tutto, dietro la pressione dell’ufficiale istruttore, tale Supejko.

Il tritacarne comunista usava ogni mezzo per estorcere confessioni alle vittime che avevano la sfortuna di cadere nelle loro mani, usando la tortura, le minacce, il ricatto, le pressioni psicologiche e fisiche.

A Pavel, in particolare, fu detto che la sua ostinazione al rifiuto di confessare avrebbe impedito la liberazione di altri prigionieri, sfruttando così la condizione psicologica secondo la quale un prete non avrebbe potuto permettere che il proprio comportamento si riflettesse negativamente su altri esseri umani.

Dopo tre mesi, durante i quali venne sottoposto a continui interrogatori nella fase istruttoria del suo procedimento penale, Pavel nell’estate del 1933 confessò una colpa che non aveva, firmando un verbale, preventivamente approntato dal magistarto inquirente, che trasformandolo in fascista recitava testualmente:

Riconoscendo i miei crimini verso il potere sovietico e il partito, con la presente esprimo il mio profondo pentimento per la mia criminale adesione all’organizzazione del centro nazionalfascista

Il potere comunista decretò infine l’accusa di “attività controrivoluzionaria", per la quale l’imputato venne inviato a Skorovodino, nella Siberia occidentale per scontare una pena di dieci anni nella sperduta Stazione sperimentale degli studi sul gelo  presso il BAMLAG dove rimase dal 10 febbraio al 17 agosto 1934.

Stazione del permafrost a Skovorodino

Le ricerche sul gelo vertevano sul suo utilizzo in campo elettrotecnico e il genio di Pavel portò a scoperte  importanti sul permafrost e sui liquidi anticongelanti.

L’estate successiva fu raggiunto dalla moglie Anna e dai suoi tre figli piccoli, ma la perfidia del regime comunista si palesò pervicacemente sotto forma di un nuovo trasferimento, il giorno 1 settembre 1934, decretando per lui come destinazione il lager delle isole Solovki nel Mar Bianco.

Accompagnato dal famigerato articolo 58, paragrafi 10 e 11 (propaganda antisovietica e partecipazione a organizzazione controrivoluzionaria) si aprirono per lui le porte del Gulag mentre la famiglia non ebbe nemmeno il diritto di sapere in quale parte dell’universo sovietico era stato destinato.

A Skorodino, 1934
Il 24 ottobre 1934 Pavel venne imbarcato insieme ad altri deportati sulla nave che da Kem attraversò il Mar Bianco fino alle coste delle isole Solovki.

All’arrivo, tutti quelli rimasti vivi furono incolonnati verso il luogo in cui avrebbero trascorso un periodo di quarantena, mentre sulla riva vennero accatastati i corpi di coloro che non avevano superato le fatiche del viaggio, la fame, il freddo o una malattia.

Florenskij entrò così a far parte di quell’universo di 850.000 deportati che furono inghiottiti dalle Solovki, uomini, donne, giovani e vecchi, tutti accomunati senza che ci fosse un vakido motivo a subìre il medesimo tragico destino.

Proprio per lui, in particolare, considerato la mente più vasta che il Novecento russo abbia mai conosciuto, date le sue qualità di matematico, ingegnere, inventore, teologo, filosofo e sacerdote, non c’era alcun motivo plausibile, se non quello di soddisfare il sadico bisogno del comunismo di affermarsi al di sopra dei valori di libertà e di democrazia, disprezzando con arroganza i diritti umani.

Fu definito il “Pascal russo”, e anche il “Leonardo da Vinci della Russia”, ma la sua immensa caratura morale e le sua incommensurabile capacità intellettuale non furono sufficienti a evitargli di finire stritolato nelle ruote dell’ingranaggio sovietico.

Nel 1934 Pavel aveva 52 anni e non sapeva che il Gulag, al cui ingresso troneggiava imperiosa la scritta “Rieducazione attraverso il lavoro”, si sarebbe appropriato della sua vita da lì a tre anni, mentre il regime comunista tentava di fare di lui un uomo nuovo, anzi un automa spersonalizzato di proiprietà esclusiva della macchina statale.

Stalin, deus ex machina del comunismo sovietico, tolse all’umanità sofferente delle Solovki tutto ciò che apparteneva alla sfera dei sentimenti, come l’onore, la rispettabilità, la fedeltà, l’amicizia, il senso del vero o della giustizia, la speranza, lasciando i deportati in balìa di carnefici sadici e sanguinari, e offrendo loro tavolacci di legno da usare come giacigli su cui abbandonarsi esausti dopo i turni di lavoro, assediati da un esecito sempre attivo di cimici che banchettavano con la loro carne, spudoratamente e senza pause.

Florenskij fu assegnato ai lavori comuni a svolgere mansioni come la selezione e la sbucciatura delle patate, oppure come addetto al mangime degli animali, lo scarico dei sacchi di rape, ma anche come addetto al centralino o al lavoro nella torbiera.

Il 15 novembre venne però trasferito per lavorare nella fabbrica “Iodprom”, uno stabilimento nel quale si produceva  lo iodio che veniva estratto dalle alghe marine.

Nel 1936 scrisse una lettera alla sua famiglia, di cui propongo un brano significativo del suo stato d’animo:

Qui tutto è senza suoni, come nei sogni.

E’ il regno del silenzio.

Naturalmente non proprio alla lettera perchè c’è più che abbondanza di ogni tipo di rumori molesti, e viene voglia di rinchiudersi da qualche parte per restare in silenzio.

Ma il fatto è che qui non si sente il suono interiore della natura, la parola interiore della gente.

Tutto scivola, come in un teatro d’ombre, e i rumori giungono dall’esterno, come un qualcosa d’inutile e fastidioso, o come chiasso.

E’ una cosa difficile da spiegare come mai niente ha rumore, perché non c’è la musica delle cose e della vita; io stesso non riesco a capire fino in fondo perché sia così, ma questa musica non c’è.

C’è solo la risacca (ma che si sente molto raramente) e l’ululato del vento

Pavel Florenskij morì fucilato il giorno 8 dicembre 1937, a seguito della famigerata ordinanza N° 00447 emessa da Stalin, che imponeva lo sterminio di centinaia di migliaia di persone, accusate di propaganda trockista controrivoluzionaria, ma la notizia della sua morte si ebbe soltanto nel 1969.

L’impietosa quanto squallida motivazione che autorizzò i suoi carnefici a toglierli la vita fu lapidaria:

Fa propaganda controrivoluzionaria esaltando il nemico del popolo Trockij”.

Lo scittore russo Vitali Sentalisnkij, autore del libro “I manoscritti non bruciano. Gli archivi letterari del KGB”, trovò negli archivi della Polizia segreta di Leningrado un verbale redatto dalla trojka speciale che nel 1937 emetteva le condanne a morte.

Il testo era tanto lapidario quanto drammatico:

FUCILARE FLORENSKIJ PAVEL ALEXANDROVIC”.

L’incartamento esaminato da Sentalisnkij comprendeva anche una busta gialla, contenente l’attestazione dell’avvenuta esecuzione.

La sentenza della trojka della Direzione dell’NKVD della regione di Leningrado relativa al condannato alla pena suprema Florenskij Pavel Alexandrovic è stata eseguita l’8 dicembre 1937, come certifica il presente atto”.

E’ sintomatico del delirio di onnipotenza che animava i carnefici comunisti il testo del decreto emanato dal Commissario del Popolo agli Affari Interni  e Commissario generale della sicurezza dello Stato, Nikolaj Ivanovic Ezov, con cui si imponenano le quote minime di persone da “liquidare”.

Ecco un estratto del delirante documento:

Entro due mesi, a partire dal 25 agosto, portare a termine l’operazione per reprimere i più attivi elementi controrivoluzionari condannati per attività spionistiche, ribellione, terrorismo, insubordinazione e banditismo, come pure i membri di partiti antisovietici e altri rivoluzionari che in prigione hanno avuto un comportamento antisovietico … Il numero dei detenuti da fucilare per la prigione delle Solovki è fissato a 1200”.

Nel 1990 il KGB, degna erede della ferocia espressa dalla GPU, artiglio di Stalin ideato per ghermire le prede necessarie a soddisfare il suo sadico delirio di onnipotenza, inviò una lettera alla famiglia di Pavel, nella quale indicava le circostanze della morte del loro caro, a distanza di 53 anni dal momento della fucilazione.

Fra le sue opere letterarie ricordiamo i seguenti titoli, in ordine alfabetico, tradotti in italiano:

Ai miei figli. Memorie di giorni passati, A. Mondadori, Milano 2003;

Amleto, Bompiani 2004

Antonio del romanzo e Antonio della tradizione, Edizioni degli Animali 2018;

Attualità della parola: la lingua tra scienza e mito, Guerini e associati, Milano 1987;

Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, Mondadori, Milano 2010;

Dielettrica;

Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali nella geometria, Mimesis 2021;

Iconostasi. Saggio sull’icona, Medusa 2008

Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura, San Paolo, Milano 2008;

Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato 1999; 

Il Dante di Florenskij, Lindau 2021;

Il sale della terra. Vita dello starec Isidoro, edizioni Qiqajon, Magnano 1992;

Il significato dell’idealismo, Rusconi, Milano 1999

Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007; 

Il valore magico della parola, Medusa 2001;

La colonna e il fondamento della verità, San Paolo Milano 2010;

La concezione cristiana del mondo, Pendragon 2019;

La filosofia del culto. Saggio di antropodicea ortodossa, San Paolo Ed 2016

L’amicizia, Castelvecchi  2013;

La mistica e l’anima russa, San Paolo Edizioni, 2006;

La prospettiva rovesciata, Adelphi 2020; 

L’arte di educare, La Scuola, Brescia 2015;

Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977;

L’infinito nella conoscenza, Mimesis, Milano 2014; 

Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1995;

Lo stato futuro, Il Nuovo Melangolo Editore 2022;

Non dimenticatemi, Mondadori 2006;

Primi passi della filosofia. Lezioni sull'origine della filosofia occidentale, 2022;

Realtà e mistero. Le radici universalidell’idealismo e la filosofia del nome, SE Editore 2013;

Scritti sullo spazio, Beatrix 2017

Simboli dell’eternità. Meditazioni e preghiere, Lipa Editore 2020;

Stratificazioni: Scritti sull’arte e la tecnic (Lo spazio e il tempo), Diabasis 2007;

Stupore e dialettica, Quodlibet, Macerata 2013;

Sulla superstizione e il miracolo, SE Editore 2014; 

~ ~ ~

Sergej Bulgakov, il sacerdote ortodosso e intellettuale suo amico, che fu espulso dall’Unione Sovietica per ordine del  regime comunista, commemorò la scomparsa di Florenskij con le seguenti parole:

Pavel e Bulgakov
Padre Pavel non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte. (…).

L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita”.

Va però detto che soprattutto Pavel Florenskij è stato un martire cristiano della Chiesa ortodossa, rimasto fedele fino in fondo ai grandi valori che aveva posto alla base della propria vita, rendendo così una testimonianza alla verità nel cuore della tragedia del Novecento.

La figura di Pavel Florenskij è stata ricordata anche da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et ratio” rivolta ai vescovi della Chiesa cattolica circa i rapporti tra fede e ragione,  proprio per il modo originale e rigoroso con cui il pensatore russo ha saputo coniugare i dati della conoscenza scientifica con quelli della fede.

Ecco un breve estratto dell’enciclica:

Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare (…..) Pavel A. Florenskij (…).

Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede.

Una cosa è certa:

l'attenzione all'itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti.

C'è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità”.

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Dissenso

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