venerdì 19 febbraio 2010

Jung Chang

Se esistessero ancora dubbi sulla criminale politica maoista in Cina, in un contesto intriso di comunismo obbligatorio che si respirava a tutti i livelli della società, sarebbe sufficiente per fugarli, leggere “Cigni selvatici”, il libro di Jung Chang scritto con il supporto di John Halliday.
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L’autrice narra il percorso di vita che ha accompagnato l’esistenza della nonna materna, della mamma, e di lei stessa, in un intreccio di esperienze condizionate dalle imposizioni dei regimi che nel frattempo imperversavano.
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Cigni selvatici è stato scritto solo nel 1991 nonostante il fatto che Jung Chang sognasse di scrivere anche molto tempo prima.
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l fatto è che all’epoca in cui l’autrice viveva in Cina era impossibile scrivere libri e testi destinati alla pubblicazione.
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Mao infatti, nel biennio 1966-67 aveva promosso la cosiddetta “Rivoluzione culturale”.
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Per soddisfare le prerogative di questa nuova “invenzione” maoista, che si estese e si radicò poi in Cina per un decennio, furono dati alle fiamme quasi tutti i libri esistenti trovati nelle abitazioni private, e fu proibito di scrivere per se stessi.
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Il divieto comprendeva perfino la stesura di semplici poesie, ritenute espressione di appartenenza alla borghesia, e identificava chi commetteva questo grave reato come seguace del capitalismo.
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Il racconto dell’autrice inizia con la collocazione storica datata al 1924, anno in cui la nonna, Yu-Fang, all’età di 15 anni, divenne concubina di un potente Signore della guerra”, in terra di Manciuria, una delle innumerevoli regioni cinesi.
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L’unione fu combinata secondo le usanze dell’epoca, e cioè tramite un accordo tra la famiglia e il futuro “sposo”, senza tenere conto dei desideri della donna, che a quel tempo non aveva alcuna voce in capitolo.
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La cosa che più importava alle due parti erano da un lato, il progetto di maritare la figlia mediante un matrimonio il più conveniente possibile, oppure di darla come concubina ad un qualche personaggio potente e ricco, e dall’altra di ottenere una moglie o una concubina che rispondesse il più possibile ai canoni di bellezza e di tradizione corrispondenti a quelli in voga al momento.

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Tra l’altro i parametri su cui si basavano la scelta dell’uomo e l’approvazione della sua famiglia di appartenenza, richiedevano per la futura sposa che lei avesse fatto ricorso alla “fasciatura dei piedi”.
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Tale pratica era applicata fin dalla più giovane età per contenere le dimensioni dei piedi entro il limite di 8 o 10 cm. di lunghezza.
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Per conseguire questo risultato, era necessario che i piedi della donna venissero fasciati fin dall’età di due anni.
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La pratica consisteva nell’avvolgere attorno ai piedi una pezza di stoffa lunga alcuni metri, piegando tutte le dita verso il basso (fuorché l’alluce) e al di sotto della pianta del piede.
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Poi occorreva frantumare l’arco del piede mediante una grossa pietra.
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Le malcapitate donne solitamente svenivano e urlavano per il dolore lancinante che provavano durante questo trattamento disumano, che si protraeva per parecchi anni, anche dopo che le ossa erano state spezzate.
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I piedi dovevano inoltre restare fasciati giorno e notte per evitare che, liberati, potessero iniziare il naturale processo di guarigione.
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Inoltre i piedi erano ricoperti di pelle putrescente e mandavano cattivi odori se venivano tolte le bende.
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Il dolore era incessante,le unghie crescendo si conficcavano nell’avampiede, e tormentavano la donna continuamente.
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Per questi motivi i piedi erano sempre nascosti da scarpette di seta ricamate.
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A quei tempi, quando una donna si sposava, la prima cosa che la famiglia dello sposo faceva, era esaminarle i piedi.
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Si riteneva che i piedi grandi, cioè normali, fossero da disprezzare e disapprovare, e che portassero disonore.
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Questa barbara usanza era in uso da un migliaio di anni, e andò piano piano scomparendo, iniziando il suo declino proprio negli anni in cui la nonna dell’autrice, fu sottoposta invece al supplizio.
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Sono gli anni del rovesciamento dell’Impero, in cui i signori della guerra rappresentavano un reale potere, basato sulla forza dei loro eserciti, e che governavano regioni intere del vasto territorio cinese.
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La famiglia della nonna vede quindi di buon grado la richiesta del potente Xue Zhi-heng, che diverrà infatti capo della polizia nel governo dei signori della guerra a Pechino.
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Il ruolo di concubina della nonna prosegue, anche dopo che viene lasciata sola dal suo signore e padrone, impegnato altrove nelle sue vicende politiche e militari.
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La sua vita, nel contesto sociale da cui è isolata, in una sorta di prigione dorata, si snoda in solitudine, ma a disposizione di colui che poi, dopo sei lunghi anni torna da lei.
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Il nuovo incontro tra i due, dopo tanto tempo, è il preludio alla nascita di una bambina, chiamata Bao Qin, la madre dell’autrice.
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Nel frattempo la società cinese assiste alla unificazione di gran parte del territorio sotto Chiang Kai-Shek, grazie alla struttura politica del kuomintang, e alla contemporanea invasione giapponese della Cina, a partire dalla Manciuria.
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Alla morte del generale Xue, la nonna si trasferisce con la figlia e conosce un medico, il Dr. Xia, con il quale poi si sposa.
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La sua nuova vita inizia a Jinzhou, dove la coppia decide di stabilirsi.
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In Manciuria si supponeva di vivere in uno stato indipendente, nonostante l’occupazione giapponese, la quale tramite le istituzioni scolastiche, tra l’altro, diffondeva l’idea che il Paese (il Manchukuo) confinasse con due repubbliche cinesi, una ostile, guidata da Chiang Kai-shek, e l’altra amica, capeggiata da Wang Jing-wei (un burattino dei giapponesi che governava parte della Cina ).
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Nessuno inculcava ai giovani il concetto di una “Cina” di cui facesse parte la Manciuria.
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Gli insegnanti dicevano che il Manchukuo era un paradiso in terra, ma questo era vero solo per i bambini giapponesi, che potevano disporre di scuole riservate a loro, con materiale didattico a disposizione, ben riscaldate, con pavimenti lucidi e finestre pulite, mentre per i bambini cinesi erano previsti come scuole solamente vecchi templi abbandonati, o case diroccate dono di privati, quasi mai riscaldate.
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Le punizioni corporali facevano parte della tradizione nipponica e i bambini erano quindi percossi con bastoni, anche sulla testa.
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Quando i bambini cinesi (e spesso anche gli adulti) incontravano per la strada un giapponese, dovevano inchinarsi e cedere il passo, e non di rado i bambini giapponesi fermavano quelli cinesi per schiaffeggiarli senza altro motivo che quello di affermare la loro superiorità.
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Nelle vaste distese della Manciuria settentrionale i villaggi cinesi venivano bruciati e i sopravvissuti radunati in “agglomerati rurali strategici”.
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Oltre cinque milioni di persone ( un sesto della popolazione) persero la casa, e i morti furono decine di migliaia.
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L’imperatore cinese, Pu Yi inizialmente prigioniero virtuale dei giapponesi, si esprimeva riferendosi a loro come ”nazione confinante amica”, poi come “nazione sorella” e infine come “madrepatria”.
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Negli anni ’40 l’esercito giapponese era impegnato su più fronti, tra la Cina, l’Asia sud orientale e l’Oceano Pacifico, per cui iniziò a reclutare come mano d’opera anche le donne cinesi, naturalmente obbligandole con vessazioni a piegarsi ai loro interessi.
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La mamma dell’autrice visse in prima persona queste vicissitudini e fu testimone di come i giapponesi cercarono di sradicare le tradizioni locali per sostituirle con quelle più vicine alle terre del “Sol levante”.
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Le notizie erano censurate e la radio trasmetteva solamente propaganda ma nonostante ciò iniziarono a trapelare alcune notizie sulle difficoltà in cui versava il Giappone, specie dopo la resa di uno dei suoi alleati, l’Italia, nel 1943.
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La situazione trascese, e gli episodi di intolleranza da parte dei giapponesi sfociarono in episodi quotidiani di torture e uccisioni di cinesi, individuati come bersagli della loro furia di onnipotenza.
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Nel 1945 si sparse a Jinzhou la notizia che la Germania si era arresa e che la guerra in Europa era finita.
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I bombardieri americani B-29 bombardavano le città della Manciuria e si diffuse la sensazione che presto il Giappone sarebbe stato sconfitto.
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Il 9 agosto le truppe sovietiche e mongole entrarono nel Manchukuo.
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Nei giorni seguenti si iniziarono a trovare cadaveri di giapponesi linciati dalla folla, troppo a lungo oppressa, e molti di loro si suicidarono.
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L’Armata rossa dilagava a macchia d’olio, moltiplicando le guarnigioni e liberando ogni zona dai giapponesi.
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I Russi però portarono anche nuovi problemi.
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Infatti era loro abitudine smantellare anche interi stabilimenti, per spedirne i materiali in Unione Sovietica, oppure entrare nelle case e impadronirsi di qualsiasi cosa potesse essere di loro interesse.
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Si moltiplicarono gli stupri e le violenze nei confronti delle donne, e le zone “liberate” iniziarono a ribollire di rabbia.
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Iniziarono le reazioni, sia dei comunisti che del kuomintang, che con le loro manovre ripresero a tentare di prevaricarsi reciprocamente, allo scopo di conquistare il potere.
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Il kuomintang, guidato da Chiang Kai-shek, godeva dell’appoggio degli americani che garantirono loro l’appoggio aereo.
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Nella Cina settentrionale sbarcarono più di cinquantamila marines americani, che occuparono Pechino e Tianjin.
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I Russi riconobbero ufficialmente il kuomintang come governo della Cina.
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L’armata rossa si ritirò dalla Manciuria, lasciando ai soli comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong, il controllo delle città.
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La politica di Mao prevedeva di abbandonare le città, impadronendosi delle campagne, per rendere possibile poi circondarle e impadronirsi di loro.
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A Jinzhou, la città in cui viveva mia madre, i comunisti lasciarono quindi il territorio, ritirandosi, e permettendo così ad un nuovo esercito di insediarsi al suo interno.
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Il kuomintang entrò trionfalmente, e i suoi soldati si presentarono vestiti come un vero esercito, con divise pulite e con scintillanti armi americane nuove di zecca.
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L’autrice racconta che la nonna pensò che finalmente il Kuomintang avrebbe ristabilito la legge e l’ordine, assicurando la pace.
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La disillusione però fece presto capolino tra gli abitanti, non appena gli ufficiali del kuomintang iniziarono a rivolgersi loro come a “schiavi che non avete una terra vostra”, oppure come a “schiavi del Giappone”.
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Inoltre la corruzione divenne tanto diffusa che Chiang Kai-shek dovette costituire un organismo speciale per combatterla.I taglieggiamenti erano all’ordine del giorno e a chi si opponeva veniva contestato di essere comunista, accusa per la quale erano previsti l’arresto e la tortura.
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La realtà che si percepiva era quella che fosse necessario un nuovo cambiamento, più radicale, per eliminare tutte queste ingiustizie, compresa l’impotenza delle donne, e le barbarie di certe tradizioni come, per esempio, il concubinaggio, e si affacciava per questo nelle coscienze cinesi l’idea che una sola forza politica potesse far avverare un radicale e sostanziale mutamento, quella comunista.
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Le angherie del kuomintang assunsero proporzioni che si avvicinavano ad un furore parossistico, e i nuovi detentori del potere iniziarono una “caccia alle streghe” che faceva largo uso di tortura e di violenza fisica.
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Iniziò un periodo di energici giri di vite, alla ricerca di oppositori, di comunisti, di ex simpatizzanti dei giapponesi, e le accuse formulate sfociavano spesso in esecuzioni sommarie.
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Le posizioni terroristiche del kuomintang favorirono la rinascita di simpatie verso l’opposizione comunista che, clandestinamente, raccoglieva proseliti e consensi.
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La situazione progressivamente portò ad attacchi militari dei comunisti verso le città, che dopo un periodo di assedio più o meno lungo, iniziarono a capitolare.
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I bombardamenti crearono dei varchi, attraverso cui le truppe comuniste fluirono nelle città, conquistandole.
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A Jinzhou l’assedio durò 31 ore, e l’estenuante battaglia provocò ventimila vittime tra i soldati del kuomintang, e altri ottantamila furono catturati.
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In questo contesto la madre dell’autrice conobbe quello che sarebbe poi diventato suo sposo, e avrebbe generato, appunto, Jung Chang, e i suoi fratelli.
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Gli inizi dei nuovi conquistatori furono improntati a procacciarsi la benevolenza della popolazione, e il favore di quanti potessero divenire alleati per controbattere eventuali rappresaglie o ritorsioni del kuomintang, così come possibili tentativi di riprendersi il potere.
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Non vi furono saccheggi o stupri, e furono riaperte scuole e uffici, nonostante le strade fossero ancora disseminate di cadaveri.
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Riaprirono le banche e le forniture di energia elettrica e di acqua potabile, e ripresero a funzionare le ferrovie.
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La madre dell’autrice provò subito il desiderio di dedicarsi completamente alla rivoluzione e alla causa comunista, impaziente di esserne compartecipe.
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Prese così appuntamento per conoscere il responsabile dell’organizzazione del movimento giovanile, un certo compagno Wang Yu, che sarebbe diventato il padre di Jung.
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La loro storia di amore nacque, crebbe, e si sviluppò sempre in un contesto che vedeva come interprete principale l’ideologia del partito e le sue prerogative, lasciando all’amore dei due un ruolo che diveniva marginale rispetto a quello prioritario della rivoluzione.
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Le emozioni, gli slanci affettivi, la convivenza, gli aiuti reciproci, erano interpretati, soprattutto da lui, integerrimo idealista, come sintomo di una decadenza borghese da combattere.
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La convivenza non era possibile così come noi la intendiamo, continua nel tempo, vissuta quotidianamente, in quanto era considerata espressione di decadenza borghese, in quanto ogni aspetto personale della vita doveva essere considerato politico.
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Per questo motivo i funzionari statali, come lei, dovevano dormire in ufficio, salvo il sabato sera, come segno di una riorganizzazione radicale non solo delle istituzioni ma anche della società.
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Era quindi un passo necessario per raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, e comunque molti dei valori tradizionali precedenti erano ormai osteggiati e puniti, durante le assemblee di autocritica verbale che quotidianamente si tenevano dappertutto.
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Bastava dimostrarsi appena affettuosi con il consorte, per essere accusati di aver messo l’amore al primo posto anziché la rivoluzione.
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La madre dell’autrice, nonostante la giovane età (diciotto anni) e il matrimonio, si sentiva infelice, confusa e isolata. .
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Il marito era l’impersonificazione del partito e non prendeva mai posizione per schierarsi con lei su qualsiasi aspetto della vita quotidiana, ma addiceva sempre pretestuose argomentazioni che riconducevano alle direttive di una rivoluzione traboccante di suggerimenti.
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Una piccola gentilezza, così come l’indossare un vestitino dissimile dalla solita uniforme grigia da rivoluzionaria, oppure la richiesta di un aiuto in condizioni magari di stanchezza, o il pianto, erano considerati come oggetto di critica.
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Nonostante le privazioni, la spersonalizzazione delle coscienze e degli individui, quando Mao annunciò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, lei si mise a piangere come una bambina : finalmente, dopo il dominio Giapponesi, dopo la tirannia del kuomintang, era nata la Cina che aveva sempre sognato, e a cui avrebbe potuto consacrare il suo cuore e la sua anima.
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La guerra civile in Cina tra comunisti e kuomintang era ben lungi però dall’essere terminata e Wang Yu, seguendo le direttive del Partito, doveva occuparsi del comando della guerriglia nei territori in cui la situazione era incerta e difficile.
.Fu così che si trasferirono spesso finendo per attraversare mezza Cina, e finalmente trovarono un periodo di stabilità nella vecchia città natale di lui, Ybin.
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Lei nel frattempo, dopo un aborto, era in stato interessante, ma questo non fu sufficiente per organizzarsi in alcuni dettagli che le avrebbero semplificato la vita.
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Chiamò a sé sua madre, mia nonna, ma fu criticata violentemente per il suo atteggiamento borghese, fino a che mio padre non le chiese di rimandarla indietro.
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La rivoluzione proibiva di cucinare in casa, poiché tutti dovevano mangiare alla mensa pubblica, e la regola valeva per tutti.
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Mia nonna aveva confezionato dei vestitini nuovi per il nascituro, ma fu ancora più duramente criticata per le sue abitudini borghesi.
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La stessa pratica di lavarsi tutti i giorni era osteggiata, poiché la pulizia era considerata anti proletaria.
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Durante i periodi di guerriglia, si faceva a gara a chi avesse più insetti-rivoluzionari, i pidocchi.
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Tutte le intrusioni, e le sue molteplici sfaccettature, della vita privata delle persone facevano parte di un progetto noto come “riforma del pensiero” .
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L’ideatore, Mao, tendeva con il conseguimento di questo obiettivo all’assoggettamento totale di tutti i pensieri.
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Ogni settimana si tenevano riunioni dedicate all’esame del pensiero, in cui ognuno doveva criticare se stesso per i propri pensieri scorretti e sottomettersi alle critiche degli altri.
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Le riunioni tendevano a essere dominate da persone meschine e supponenti convinte di essere nel giusto, che se ne approfittavano per dare sfogo alla propria invidia e frustrazione ; in particolare, le persone di origine contadina le sfruttavano per attaccare quelli che avevano origini “borghesi”.

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Il libro prosegue, narrando le mille contraddizioni insite nel programma maoista di rivoluzione della società, passando per la riforma agraria che causò 30 milioni di morti, e proseguendo per la rivoluzione culturale, che azzerò ogni forma di cultura in Cina per una decina di anni e riportò il paese indietro di 50 anni.
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La madre prima, e l’autrice successivamente erano parte di un disegno che dovevano loro malgrado interpretare, ma che a lungo, intimamente, sostennero con fervore, in nome di un ideale in cui credevano e di un leader a cui facevano riferimento, come milioni di altri cinesi come loro.
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Il “Grande Timoniere” come soleva essere chiamato Mao, commise consapevolmente una serie di nefandezze, compresa quella che instaurò un clima di terrore sociale, mediante l’istituzione delle Guardie rosse e l’invito loro rivolto a “distruggere i quattro vecchi” : le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni, e le vecchie abitudini.
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La moglie di Mao, interpretò un ruolo parimenti feroce, durante la “Rivoluzione culturale” in cui affermava che bisognava saccheggiare le case, distruggere i tesori delle collezioni private, dipinti e saggi, e soprattutto bruciare tutti i libri esistenti.
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I musei vennero così saccheggiati, le tombe devastate, le pagode e i templi presi d’assalto, con il beneplacito di Mao, che sosteneva l’operato delle guardie rosse ostentatamente.
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Composte per lo più da giovanissimi, le Guardie rosse erano per Mao il fertile terreno su cui seminare uno strumento ideale di tirannia, coltivandolo con l’incitamento alla violenza e il fanatismo ideologico.
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Le bande infervorate di giovani comunisti misero a ferro e fuoco le scuole e le università, prendendo in ostaggio i professori, rei di incarnare l’essenza di un potere odioso, da distruggere, e li picchiarono selvaggiamente, li torturarono e li umiliarono, in tutta la Cina.
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Nessuno volle più interpretare il ruolo dell’insegnamento per oltre dieci anni, per cui, insieme agli immensi falò di libri e di volumi di ogni tipo, si persero le radici millenarie della cultura e della tradizione cinese.
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Distruggere per essere poi l’unico riferimento : un po’ come hanno fatto i talebani con le statue del Buddha in Medio oriente.
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L’ennesima caccia alle streghe dilagò ovunque e cambiò per sempre la storia cinese, complice Mao, sua moglie, Jiang Qing, e Lin Biao, unitamente a tutta una schiera di feroci e spietati personaggi che tronfi di potere scaricavano, spesso per vendetta o per speculazione, le loro frustrazioni su chi, ai loro occhi, avrebbe potuto insidiare la loro posizione.
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Una moltitudine di persone si fece largo nella scalata al potere, o anche solo per ottenere il consolidamento di una comoda posizione, prendendo di mira coloro che magari consideravano come ostacoli.
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La società cinese, i comunisti che avevano iniziato la Rivoluzione, combattendo contro i giapponesi e il kuomintang, oppure gli intellettuali, o semplicemente coloro che avevano ancora un residuo di capacità di sintesi intellettiva, iniziarono a nutrire qualche dubbio sulla figura di Mao, e di come il comunismo aveva trasformato le loro famiglie, e la società stessa.
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La cieca e irresponsabile, per non dire criminale, politica maoista dopo aver svelato il suo volto in decenni di catastrofi umanitarie, finalmente trova riscontro solo in affermazioni di autentica criticità e di biasimo universale.
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I cinesi stessi, che per generazioni hanno guardato a lui come un faro che illumina il percorso da seguire, hanno finalmente capito che Mao e sua moglie sono stati due pazzi criminali, malati di mente, avidi di un potere corrotto da un'ambizione smisurata, e simili, nella sostanza ad Hitler ed a Stalin.
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L'odio di questa malvagia coppia verso qualsiasi forma di intelligenza e di cultura, ha fatto sprofondare la Cina in un precipizio di terrore e di ignoranza abissali, tagliando i ponti con ogni pur minima considerazione verso la cultura stessa, in tutte le sue manifestazioni, facendo regredire il Paese agli oscuri periodi medioevali.
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La morte di Mao, ha colto tutti i cinesi in un momento in cui la società stava inconsciamente riesaminando lo stato delle cose, davanti ad una evidenza palese di sfacelo sociale, ponendo il dittatore non più su un piedistallo dorato come in un passato recente in cui era identificato quasi come una divinità, ma collocandolo a livello di critica esistenziale, eviscerando le incontestabili nefandezze a cui li aveva sottoposti.
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Ma l'autrice ha veramente potuto assaporare la libertà vera solamente quando ha potuto recarsi, grazie ad una borsa di studio, in Gran Bretagna, paese che diverrà poi la sua nuova patria.
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Viene istintivo domandarsi : di tutti quei fanatici comunisti che negli anni 60 riempivano le piazze italiane, sventolando il libretto rosso di Mao, e inneggiavano al dittatore cinese, perchè non ne è mai scappato nessuno verso il propagandato "paradiso"cinese ?
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La risposta è che la storia è piena dei "rivoluzionari della domenica", e di coloro che si pasciano di una grassa ignoranza, ingurgitata e fagocitata grazie agli indottrinatori di certa sinistra che, come Mao, fanno solo ciò che gli conviene.
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Dissenso
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sabato 6 febbraio 2010

F O I B E

Ricorre il 10 Febbraio il Giorno del ricordo, in commemorazione delle vittime delle stragi delle “foibe”, così come vengono identificate le migliaia di vittime del furore comunista della polizia di Tito, alla fine e durante l’ultima guerra mondiale, in terra di Istria e Dalmazia, a Trieste e a Gorizia.
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Le cosiddette foibe sono cavità naturali del terreno, con ingresso a strapiombo, alcune profonde molte decine di metri, tipiche del paesaggio carsico, in cui furono gettate vive le persone di nazionalità italiana, a causa del folle disegno di odio, attuato dall’esercito di Tito, che ha portato al genocidio di italiani innocenti.
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Per decenni il silenzio ha ammantato, coprendo ad arte, questa triste e macabra realtà, annoverando tra gli scheletri nell’armadio di un comunismo sempre più identificativo, una interpretazione di efferata ma lucida volontà persecutoria di esseri umani.
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Lo stereotipo è lo stesso che accomuna tutti i crimini contro l’umanità, commessi in questo caso, come in molti altri, da un regime comunista che da un lato perpetrava nefandezze di ferocia inaudita, e dall’altra nascondeva le tracce del suo operato, con la complicità di personaggi come, ad esempio, Togliatti e i suoi compagni di partito.
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Costoro sono stati complici di un silenzio che li ha accomunati così ai responsabili materiali delle stragi, diventandone correi a livello morale e subdoli avallatori di una strategia ideologica che fa del terrore il suo punto focale di forza.
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Ecco perché il 10 febbraio dobbiamo celebrare la giornata del ricordo..
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La memoria ci deve riportare indietro nel tempo, per rivivere la tragica realtà subita da migliaia di nostri fratelli e sorelle, brutalmente strappati alla vita, assassinati dal regime comunista.
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Un esauriente studio sulle stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, è stato compiuto da Gianni Oliva che ha poi dato alle stampe le risultanze del suo lavoro di indagine, pubblicando il volume “Le foibe”.
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Fin dalle prime pagine si evince la precisa responsabilità del progetto politico jugoslavo, esplicitato da Tito e da Kardely sin dall’autunno del 1943..
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L’uniformità di intenti dei comunisti facenti capo a Belgrado, evidenzia la necessità di eliminare qualunque forma di opposizione tesa a schierarsi a favore di una anti-annessione alla Jugoslavia dei territori occupati.
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Lo sterminio totale di qualunque voce di dissenso era considerata da Tito una prerogativa irrinunciabile per potersi sedere poi al tavolo delle trattative di pace, e vedere riconosciuta la sovranità di Belgrado sul territorio giuliano.
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Le gravi ambiguità di Togliatti (numero due del Komintern) e del gruppo dirigente del P.C.I. rispetto alle definizioni dei confini nazionali orientali, e le politiche espansionistiche di quello che era, all’epoca, un regime comunista, portarono ad un clima di terrore dilagante in quei territori.
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La realtà così delineatasi si sovrappose ad una configurazione interpretata e percepita con dinamiche di assimilazione basate su una molteplicità di sfaccettature.
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In primis la verità storica ha evidenziato come le stragi delle foibe facessero parte di un disegno di eliminazione sistematica degli anticomunisti contrari all’annessione.
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Da parte italiana si percepisce invece l’impressione di trovarsi di fronte ad un genocidio nazionale, una vera e propria pulizia etnica, mirata alla distruzione di tutto ciò che era italiano.
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Da parte jugoslava la tesi contrabbandata è quella di una giustizia politica contro il nazifascismo.
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La contrapposizione radicale di queste interpretazioni si riflette anche sul computo delle vittime.
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La difficoltà di conteggiare gli “infoibati” consiste nella pluralità delle variabili che intervengono nel prendere in esame i diversi fattori concomitanti.
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In molti casi, per esempio, è stato impossibile recuperare e contare i corpi occultati negli inghiottitoi carsici.
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E’ necessario anche considerare come vittime della stessa ondata persecutoria i prigionieri deceduti nei lager della Slovenia e della Croazia, compresi coloro che hanno perso la vita durante le tragiche marce di trasferimento.
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Il numero che si indica oggigiorno come cifra più diffusa nell’opinione corrente per identificare le vittime delle foibe si avvicina a dodicimila unità, e comprende però anche i morti e i dispersi in combattimento nel periodo 1943-45.
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Se si conteggiano solamente gli infoibati il numero scenderebbe a 5.000 unità, mentre però c’è chi parla ancora oggi di 20-30 mila morti.
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Va considerato comunque che, nonostante il carattere specifico di pulizia etnica assunto dalle epurazioni Titine, la prassi seguita dall’esercito jugoslavo in tutti i territori da loro “liberati” prevedeva come obiettivo della repressione tutti coloro che a loro si opponevano, indistintamente da nazionalità o da appartenenza politica.
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Furono infatti colpiti anche gli abitanti di nazionalità slava abitanti nell’Istria.
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In conseguenza di tutte queste considerazioni la stima di riferimento ritenuta quindi più valida, inquadra le dimensioni dell’eccidio in circa 10.000 vittime.
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Le modalità con cui furono eseguite le uccisioni, ricalcano sistemi che si basano su una interpretazione del terrore spietatamente tragico.
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Spesso le persone venivano gettate vive, o ferite, dentro alle profonde cavità delle foibe, nelle quali si accumulavano corpi di feriti agonizzanti, insieme a cadaveri in decomposizione precedentemente uccisi.
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L’orrore era la prassi, indice di una crudeltà fine a sé stessa che solo gli esseri umani sono in grado di sfoggiare, come elemento distintivo della sua inspiegabile ferocia.
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Ne è stato testimone Graziano Udovisi, unico sopravvissuto, miracolosamente risparmiato da un destino tragicamente benevolo.
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I soldati di Tito nel 1945 gli hanno spaccato i timpani a furia di percosse, dopo averlo legato così stretto con il filo di ferro da farlo sanguinare..
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Insieme ad altri sventurati è stato condotto, facendolo marciare scalzo, sul ciglio di una foiba, dove lo aspettava una mitragliata finale.
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Graziano Udovisi non aspettò i colpi fatali, ma coraggiosamente si buttò nel vuoto e compì un lungo e interminabile volo di una ventina di metri, precipitando inconsapevole nell’acqua che riempiva il fondo della foiba.
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Scalciando nell’elemento liquido e cercando di non bere si dimenò per tentare la risalita, trattenendo il respiro, e riuscendo a liberare una mano dalla morsa del filo di ferro.
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Sentì qualcosa sotto il suo piede, che poteva essere un sasso, su cui fare appoggio, ma si rese conto che era invece la testa di un suo compagno di sventura.
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Subito, con la mano libera lo afferrò, tirandolo su con forza, e riuscendo così a salvarlo.
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Ancora oggi Graziano Udovisi, a volte, la notte ha degli incubi, che rievocano le tragiche giornate vissute.
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Ricorda e parla di 20.000 vittime, e del silenzio totale in cui le ha avvolte lo Stato italiano negli anni successivi.
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Dove erano Enzo Biagi (il “grande vecchio” del giornalismo italiano), o Giorgio Bocca (a cui danno tanto fastidio le commemorazioni delle foibe e non quelle della risiera di San Sabba) , o Sandro Curzi (ex direttore di “Liberazione” organo di Rifondazione comunista), o Furio Colombo (alla direzione de l’Unità)….?
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Per sessant’anni hanno taciuto, seguendo le indicazioni di partito, privando gli italiani di una verità che poi è comunque esplosa…
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Costoro non sono altro che manipolatori dell’informazione, abituati all’uso e alla strumentalizzazione del silenzio, della metamorfosi, della colpevole ambiguità, che abilmente frapponevano tra i loro lettori e la nuda verità.
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La loro “pratica giornalistica” è stata fortunatamente insufficiente al raggiungimento del bieco obiettivo che si erano prefissati i comunisti di casa nostra, e cioè nascondere le malefatte compiute dai loro compagni, le loro stragi, gli eccidi e le falsità, e di evidenziare solo, falsandolo, un aspetto idilliaco e compiacente di ogni singola situazione.
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Voglio ricordare anche a chi legge, come a volte il destino, nella sua ineluttabilità, sia perverso e tragicamente irrispettoso della memoria di chi ha, appunto, interpretato il ruolo di vittima.
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Il percorso che segue il fato può seguire strade che riconducono alla manipolazione e alla sudditanza ideologica di personaggi che ne dovrebbero invece essere immuni, poiché svolgono attività giudiziarie come servitori dello Stato e della Giustizia.
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Nel 1996 furono indagati presso il Tribunale di Roma, dopo oltre 50 anni dalla vicenda delle foibe, alcuni slavi, identificati come autori di massacri di migliaia di italiani.
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I cittadini croati Piskulic Oskar e Motiva Ivan furono infatti accusati del delitto di genocidio per avere, tra il 1943 e il 1947, sterminato migliaia di persone che pur vivendo in Istria e Dalmazia, avevano la colpa di essere di etnia italiana.
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Sembra assurdo ma le risultanze processuali portarono i giudici romani a considerare decaduta la competenza italiana in quanto i fatti avvennero in un territorio già passato sotto il controllo jugoslavo.
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Le vittime delle foibe sono state così uccise due volte, la prima dai feroci esecutori materiali del Maresciallo Tito, e la seconda dalla vergognosa asserzione promulgata dai giudici romani.
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La mia domanda al riguardo è d’obbligo…
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Ci sono stati condizionamenti da intellettualoidi spostati a sinistra che, nelle alte sfere giudiziarie, hanno indirizzato queste vergognose sentenze ?
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Perché è di vergogna che si tratta, e lo dico senza tema di smentita.
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Comunque, polemizzare non riporta in vita le vittime di un disegno criminale studiato a tavolino, e che noi abbiamo l’obbligo di non dimenticare.
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Ricordiamo quindi come abbiamo fatto per la Shoà anche le vittime delle foibe, in un unico abbraccio ideale, dedicando loro una preghiera…un semplice pensiero di pace e di affetto.
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Pensiamo a loro, anche solo per qualche istante, e proviamo a riflettere…
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Dobbiamo diffondere messaggi di amore, di fratellanza, di non violenza.
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Non permettiamo che il male riesca a fare breccia di nuovo, spietatamente…
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Per noi, i nostri figli, e i nostri nipoti…ma non solo…
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Dissenso
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giovedì 4 febbraio 2010

ZHANG XIANLIANG


Zhang Xianliang è nato a Nanchino, in Cina, nel 1936, da una famiglia della media borghesia, ed è morto il 27 settembre 2014 a Yinchuan.
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.Suo padre era un funzionario del Kuomintang, nonché un industriale di grosso calibro che gestiva grandi imprese, tra cui anche una compagnia di navigazione, ma venne poi accusato di spionaggio e arrestato.
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Il genitore morì in carcere, in una prigione maoista, seguendo la sorte di altre centinaia di migliaia di persone che, per ordine Mao, furono eliminate fisicamente.
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Dopo la morte del padre, Zhang si trasferì a Pechino, dove frequentò la Scuola Media, iscrivendosi ad un gruppo chiamato “Qi Xiondi” (sette fratelli) che gli costò l'espulsione dalla scuola nel 1954 .
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Si trasferì nella regione nord-occidentale del Ningxia per lavorare come bracciante agricolo.
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Nel 1956 gli fu assegnato il compito di insegnante in una scuola.
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Nel 1957 fu pubblicata una sua poesia dal titolo “Figlio del grande vento” che ebbe un enorme successo.
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Quando Mao lanciò il piano di “Rivoluzione culturale” secondo cui non era permesso scrivere alcunché a titolo personale, in quanto segno di borghesia e sintomo di appartenenza ai seguaci del capitalismo e della destra, o del Kuomintang, furono perseguitati gli scrittori, i poeti, i letterati, gli insegnanti e gli intellettuali.
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Addirittura gli studenti furono incitati a ribellarsi ai quadri dirigenti scolastici e agli insegnanti, che vennero additati al pubblico disprezzo come rappresentanti di un potere ingiusto, deviato, non in sintonia con il comunismo, con i contadini, e con il popolo.
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Questa politica che Mao indicò al popolo cinese come la via da seguire, innescò un periodo di terrore che portò gli studenti a riunirsi in bande organizzate che si accanivano contro i loro stessi ex professori, obbligandoli ad umilianti sessioni di autocritica, e facendoli oggetto di percosse, torture, segregazione, e umiliazioni di ogni tipo.
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Zhang non sfuggì a questa caccia alle streghe e, per il fatto di essere un poeta, un letterato, un intellettuale, e quindi un 'nemico del popolo', fu mandato in un “campo di rieducazione attraverso il lavoro”, come venivano eufemisticamente chiamati i lager del regime comunista di Mao, i famigerati "laogai".
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A ventuno anni di età Zhang entrò quindi a contatto con la realtà più subdola della politica di Mao, e cioè il tentativo e la volontà del regime di voler annullare la persona in quanto tale.

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Per ventidue anni rimase prigioniero di aguzzini che, per volere di Mao, cercavano in tutti i modi di imporgli di pensare non come essere umano in quanto tale, ma come propaggine di un unico ragionamento, quello statale, che coincideva con il pensiero di Mao.
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La carestia intanto, effetto delle disastrose pianificazioni produttive degli anni Cinquanta, stava mietendo milioni di vittime in tutto il Paese.
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Le politiche agricole di Mao, privo di una qualsivoglia capacità imprenditoriale, provocarono in tutta la Cina la morte di trenta milioni di persone.
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E’ proprio in quegli anni che Zhang trovò la forza di scrivere un diario durante la sua prigionia.
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Zhang ha scritto e pubblicato, una volta libero, “Zuppa d’erba”, una versione estesa del suo diario segreto, per ricordare ai giovani cinesi cosa può accadere in un sistema autoritario.
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"Usai la penna per sopravvivere.
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Scrissi negli interstizi, nelle crepe del tempo, quando non lavoravo nei campi.
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Scrivendolo, la prima cosa a cui pensavo non era ciò che era accaduto in una data giornata, nè i pensieri degni di nota.
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Al contrario, pensavo anzitutto agli avvenimenti e ai pensieri che non dovevo assolutamente registrare."
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Quelle scarne annotazioni, accuratamente autocensurate, hanno aiutato il loro autore a sopravvivere, in mezzo ai delinquenti comuni tra cui era stato gettato, in un inferno senza sbarre, dove gli strumenti di tortura erano la fame, l’autocritica, e la delazione.
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Dopo ventidue anni di prigionia, Zhang Xiangliang è stato 'riabilitato', nel 1979.
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Da allora si è affermato come una delle voci più originali della letteratura cinese.
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Oggi, l'autore ha potuto raccontare tutto ciò che, allora, aveva lasciato fra le righe.
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In Inglese sono stati tradotti “Metà dell’uomo è donna” e "Geeting Used to Dying".
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Zuppa d’erba” è stato dato alle stampe da Baldini & Castoldi nel 1966.
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Si tratta appunto di un diario, in cui l’autore, internato in una “fattoria” per essere “rieducato”, scriveva di come si possa cadere in basso, materialmente e spiritualmente, continuando allo stesso tempo a vivere.
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L'orrore, la pietà, l'ironia disperata e la forza del racconto sono tali che la lettura rimanda a classici come "Memorie da una casa di morti" di Dostoevskij, oppure come "Una giornata di Ivan Denisovic" di Solzenicyn.
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La testimonianza di Zuppa d'erba è unica, per il fatto di descrivere uno dei più sottili orrori che l'uomo sia capace di immaginare : il lavaggio del cervello.
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L’orrore del laogai è un inferno da cui nessuno osa fuggire perchè ha talmente interiorizzato il senso di colpa da credere di meritarsi condizioni di vita al di là dell'immaginabile.
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La consuetudine quotidiana sono : un giaciglio largo trenta centimetri per dormire, un lavoro massacrante dall'alba alla sera, insulti e umiliazioni come terapia di riabilitazione, la perdita di qualunque individualità e, come cibo, una tazza di zuppa d'erba dei campi, annacquata.

Racconta l'autore :
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"Tutto ciò che vedevo intorno a me era diverso da quanto avevo letto nei libri.
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L'uomo esaltato da poeti, scrittori, studiosi di etica, pedagoghi, filosofi, storici, pareva essersi ridotto a uno stato non molto diverso da quello dei rospi di cui si cibava.

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Tutti gli animali del globo, anche i più infimi, parevano conformarsi alle leggi naturali della loro specie.
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Non vi era nulla di incomprensibile in ciò.
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Soltanto, era difficile comprendere perchè l'uomo dovesse vivere una vita simile.
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In realtà non avevo alcun desiderio di comprendere.
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Mi limitavo a sopravvivere, da mattino a sera, con una sorta di inesprimibile meraviglia per ciò che stava accadendo.
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Che continuassi a vivere, che ancora non volessi morire, che ancora esigessi da me stesso di diventare una persona migliore - questo sì che destava meraviglia"
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Vorrei rammentare che ancora oggi il regime comunista cinese fa largo uso dei laogai, veri e propri lager, in cui le persone vengono sfruttate per il loro lavoro, spesso in condizioni disumane, con la minaccia della tortura, o di estreme conseguenze.
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I laogai sono gli stessi orrendi strumenti repressivi usati anche da Mao per annichilire chi osava discostarsi dal suo “divino” pensiero, scritto e diffuso su quel famoso libretto rosso che, in Occidente, trovava molteplici riscontri nel plauso di folle di giovani comunisti indottrinati da profeti del comunismo cinese.
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I “campi di correzione attraverso il lavoro” hanno sempre continuato la loro pratica distruttrice delle personalità e delle concezioni individuali, in un crescendo di parossismo e di furore tesi alla manipolazione totale di ogni coscienza, e di ogni persona.
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Nonostante ciò, noi Occidentali siamo stati capaci di chiudere gli occhi, e di portare la più recente manifestazione Olimpica in terra cinese.Parimenti, il nostro Presidente del Consiglio si è compiaciuto recentemente di aver stretto “importanti relazioni commerciali” con Pechino.
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Non aggiungo altro.
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Posso solo considerare il fatto che in questo modo ci siamo resi complici del regime comunista cinese, ignorando i martiri che ogni giorno vengono sacrificati impunemente.
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Mi inchino al loro cospetto e plaudo al ricordo di chi, come loro, si è opposto alla tirannia.
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Ricordo la rivolta di Piazza Tienanmen e le migliaia di vittime della successiva repressione.
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Mi torna alla memoria il coraggio dell’anonimo rivoltoso che, completamente disarmato e solo, si oppose al carro armato che avanzava, ponendovisi davanti per fermarlo, a rischio della sua stessa vita.
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Non è raro constatare che i nostri politicanti stringono le mani sporche di sangue di quei rappresentanti di regimi che, con violenza e sopraffazione, si servono della vita umana come ostaggio per il raggiungimento di un potere dittatoriale e assoluto.
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Con questi individui si stringono accordi commerciali, si sorride, si organizzano convegni, si indicono conferenze stampa, come è avvenuto per dittatori del calibro di Gheddafi, di Putin, o di Hu Jintao.
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L’occidente è testimone e allo stesso tempo complice di un sistematico piano di distruzione delle coscienze in atto oggi in Cina, così come del genocidio della popolazione di etnia tibetana.
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Il fantasma degli orrori dell’olocausto, e del gulag, ricompare oggi, mai sopito, incredibilmente attuale, senza che i massimi esponenti politici alla guida delle nazioni mondiali prendano posizioni nette e decise per contrastarlo.
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Vergogna !
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Celebrare la giornata della Shoà da una parte, e tacere subdolamente su Laogai cinesi dall’altra, pone chi interpreta questo ruolo su posizioni quanto meno discutibili.
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Appare falso e colpevolmente complice chi soggiace al fascino delle relazioni commerciali con coloro che impersonano nei fatti gli eredi spirituali di un bieco comunismo, a sua volta saziatosi per decenni con la carne di vittime innocenti.
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Vergogna !
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L’essere umano rappresenta, nella sua identità, un anello di una lunghissima catena, in cui ognuno precede o continua il suo collegamento con altri esseri umani, in una ferrea simbiosi che ne caratterizza l’esistenza.
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Spezzare un anello in una qualsiasi posizione comporta l’indebolimento dell’intera catena.
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La rottura che ne sussegue provoca non solo un mero distacco fisico da una realtà precedentemente a contatto diretto, ma anche e soprattutto la perdita di un bagaglio mentale, culturale, psicologico, sociale, e intellettivo, che viene giocoforza dissociato irreversibilmente da quell’intersecarsi di culture e di simbiosi di intenti faticosamente raggiunti in millenni di coesistenza.
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La Shoà ne è un esempio, così come l’universo del Gulag, e purtroppo anche i Laogai di oggi.

Ringrazio Zhang Xianliang per averci testimoniato la realtà da lui vissuta in Cina, e per averci dato modo di sapere come, per ventidue anni, sia stato perseguitato dal regime comunista.
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Una vita…
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Gli anni della gioventù, fino alla maturità, per ventidue anni, trascorsi mangiando quasi sempre una zuppa di erba annacquata …

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Percosse, torture….
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E soprattutto, riunioni di autocritica, per emendarsi, per pentirsi… per diventare un buon comunista…
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Dissenso
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