giovedì 28 febbraio 2013

I PRODROMI DEL GENOCIDIO ARMENO

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Durante il corso di tutta la sua storia, il popolo Armeno è stato oggetto di violenze e di costrizioni, ad opera soprattutto dei turchi e dei curdi dell’Impero Ottomano, fino al grande olocausto che ha portato al genocidio finale del 1915 e 1916 di 2 milioni di vittime innocenti.
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A questo proposito voglio proporre due testi, estrapolati dall’universo in cui gli interrogativi storiografici si misurano sulla questione del genocidio.
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Marcello Flores ha scritto e dato alle stampe “Il genocidio degli Armeni”, che rappresenta il primo studio sistematico di questo valente storico italiano sul tema, arricchito da un corredo fotografico inserito nella ricostruzione propostaci.
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Yves Ternon ha scritto invece “Gli Armeni” scavando in profondità nella storia del popolo dimenticato, dando al genocidio armeno caratteristiche non più di ipotesi, ma di certezza.
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L’Armenia geograficamente è situata a sud della catena montuosa del Caucaso, considerata il divisorio naturale tra Asia ed Europa.
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Confina con la Turchia ad ovest, con la Georgia a nord, con l’Azerbaigian e la Repubblica del Nagorno Karabak ad est, e con l’Iran e l’enclave azera del Nakchivan a sud.
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Nel 1915 gli Armeni sono stati oggetto di tentativo di sterminio totale, e di vero e proprio genocidio, a causa della loro appartenenza all’etnia stessa che li identificava come tali, divenendo un bersaglio per l’attuazione di un crimine che si può definire assoluto, in quanto attuato contro quell’umanità a cui loro stessi appartengono.
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Nonostante il negazionismo e il giustificazionismo che sferza la società turca oggigiorno, appaiono sempre più chiaramente le continuità prodromiche dei massacri che, iniziati alla fine dell’Ottocento fino a quelli perpetrati durante il conflitto mondiale, hanno caratterizzato la questione del genocidio Armeno.
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Il 1878 rivela infatti evidenti tracce delle intenzioni ottomane di annichilire la popolazione di etnia armena.
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Il territorio armeno fu infatti invaso dalle armate russe, ma poiché la dominazione turca soggiogava il popolo armeno con estrema ferocia, i nuovi invasori furono accolti come veri e propri liberatori dagli stessi armeni del luogo.
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Questo comportamento provocò, naturalmente, le ire degli ottomani che, dopo aver riconquistato i territori in questione, lasciarono la popolazione armena in balìa della soldataglia curda, che mise in atto il primo vero tentativo di sterminio dell’etnia armena.
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I curdi misero a ferro e fuoco la cittadina di Bayazet, uccidendo 165 famiglie cristiano armene e poi distrussero completamente 113 dei 122 villaggi esistenti sul territorio.
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Autorizzati a proseguire nei loro misfatti, i curdi uccisero più di seimila armeni.
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I curdi identificarono negli armeni le loro vittime designate.
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Si esigeva da loro la conversione e furono costretti alla pratica della circoncisione.
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Gli armeni venivano trattati come veri e propri servi della gleba, tanto che ai residenti nei villaggi di tale etnia non era concesso né di vivere in pace, né di poter disporre dei propri beni, se non dietro il pagamento di una tassa.
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I tributi che venivano loro chiesti erano di due tipi :
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il Kjafir, un contributo annuale in base alle percentuali sia del raccolto che delle dimensioni del gregge, o della produzione artigianale ;
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l’hala, che costituiva metà della dote che i fidanzati versavano alla famiglia della futura sposa.
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Sentimenti di rivolta iniziarono a serpeggiare nel popolo armeno.
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Si costituirono i primi movimenti rivoluzionari, dopo una lunga fase preparatoria di rinascita culturale.
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Nacquero movimenti dissidenti e società segrete, come :
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Unione per la salvezza (1872) ;
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Società della Croce Nera (1878) ;
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Protettori della Patria (1881) .
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Nacque L’Armenakan, il partito rivoluzionario che rivendicava per mezzo della rivoluzione appunto, il diritto all’autogoverno e l’emancipazione nazionale.
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Nacque l’Hntchak a Ginevra, nel 1887, il partito di ispirazione marxista.
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Dopo il 1878 nelle moschee gli Imam aizzavano i fedeli contro gli armeni, liberando così lo spirito predatorio dei curdi, che si sentivano autorizzati e legittimati a taglieggiare i contadini e i mercanti, a rapire le ragazze armene, e a compiere razzie nei villaggi.
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Dal 1879 al 1881 venne poi messo in atto un altro tentativo di eliminare la popolazione armena, ancora una volta per volontà degli apparati ottomani.
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I resoconti diplomatici dei consoli inglesi di quel periodo raccontano di un enorme flusso migratorio del popolo circasso, proveniente dalla Russia e dalla Bulgaria.
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Le popolazioni caucasiche represse dalla ferocia dei governanti russi, emigrarono, e vennero attratte dalle lusinghe delle autorità ottomane, che promisero loro allettanti prospettive di insediamento nei territori armeni, messi a loro disposizione.
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Vennero loro promesse : razioni di pane per un anno, distribuzione di terre, impieghi ben retribuiti nelle aziende agricole, denaro per costruire villaggi, moschee, e abitazioni.
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Lo scopo delle autorità turche era quello di attirare in terra di armenia un gran numero gli immigrati, allettandoli con lusinghe, per poi negare loro ogni promessa fatta, e lasciandoli in balìa degli eventi, soli, e senza riparo, né cibo, obbligandoli di conseguenza a competere e a venire in conflitto con la popolazione residente, cioè gli armeni, per poter sopravvivere.
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Dato l’enorme numero dei migranti, le autorità speravano che la loro presenza e la loro necessità di imporsi potessero sopraffare i residenti Armeni, e causare così la loro eliminazione totale.
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Accadde così che nel 1880 il fenomeno dell’immigrazione si intensificò e flussi di decine di migliaia di profughi iniziarono a percorrere il territorio armeno, per rifugiarvisi, affamati e armati.
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L’oppressione sugli armeni era esercitata oltre che dai curdi, anche dai funzionari e dagli esattori turchi.
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Gli eccessi di crudeltà rappresentavano la regola e i contadini armeni erano bersagliati dai furti di bestiame, senza il quale non potevano coltivare la terra.
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La carestia colpì così interi distretti e provincie, in cui morirono per fame decine di migliaia di armeni.
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Nelle strade si ammucchiavano i cadaveri, in parte divorati dai cani.
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Le epidemie seminarono ulteriore disperazione e morte.
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Nel 1889, in occasione della visita a Costantinopoli di Guglielmo II° la comunità armena consegnò al Kaiser una petizione nella quale si ricordava che le promesse fatte con il trattato di Berlino non erano state mantenute, e in particolare l’applicazione dell’articolo 61.
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Ciò portò ad una sola conclusione : irritare il Sultano, che istituì una forza di cavalleria (chiamata Hamidiani) destinata alla repressione dei “ribelli” armeni.
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Solo gli ufficiali venivano retribuiti, mentre alla truppa veniva fatto sottintendere che avrebbe trovato la propria forma di pagamento mediante il frutto dei saccheggi e delle razzie.
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I curdi che bramavano le terre degli armeni venivano incoraggiati ad appropriarsene, insediandosi.
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Nel 1890 nacque il Dashnak-sutiun (HDD) (la Federazione rivoluzionaria armena), di ispirazione socialista.
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Nel 1894 scoppiò il conflitto di Sasun, scatenato dal rifiuto di tre villaggi di pagare le tasse di nuovo, per la seconda volta, dopo averle già pagate.
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Le razzie curde imperversarono e gli armeni vennero uccisi, fucilati, impiccati, mutilati, stuprati e distrutti a migliaia, con la compiacenza del Gran Visir Said Pasha.
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Gli abitanti di 25 villaggi (sempre nel distretto di Sasun) presero le armi per difendersi, riuscendo a mettere in fuga gli assalitori curdi.
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A questo punto il Governatore turco intervenne, imponendo loro di deporre le armi.
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Al rifiuto armeno il Governatore si vendicò incendiando e distruggendo tutti e venticinque i villaggi insorti.
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Le stime del numero delle vittime, a seconda delle versioni, variano da 2.000 a 6.000 persone.
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Le testimonianze dei missionari presenti sul posto, e quelle dei sopravvissuti parlarono di 200.000 morti, di centinaia di villaggi distrutti, di chiese rase al suolo, deportazioni e torture.
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Sasun divenne il banco di prova della politica di massacro adottata dal Sultano Abd-ul-Hamid e mostrò con chiarezza l’evidente intenzione di operare nella direzione di un vero e proprio sterminio di tutti gli Armeni.
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Lo sterminio di centinaia di migliaia di vittime armene, dal 1894 al 1896 fu permesso, quando non addirittura attuato scientemente, dal Sultano Abd-ul-hamid, che si guadagnò così, con il sangue versato, il soprannome di “Sultano rosso”.
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Il 1895 fu un anno di massacri, a cui il Gran Visir ottomano Said Pasha si dedicò con cura, dopo aver pronunciato la frase :
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Sopprimeremo la “questione armena” sopprimendo gli Armeni” !
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Il via ai massacri avviene a Istanbul, in occasione di una manifestazione degli Armeni di Costantinopoli (in turco Istanbul) in difesa dei loro diritti.
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Il corteo viene fermato dalla Polizia la quale insulta e colpisce i dimostranti, che rispondono sparando ad un ufficiale.
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La reazione è violenta e immediata :
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inizia la caccia agli Armeni, che vengono inseguiti, depredati, uccisi, seviziati e giustiziati sommariamente.
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L’indomani 50 armeni vengono uccisi, massacrati a colpi di manganelli, mentre altri armeni, facchini (hamal), vengono mutilati orrendamente.
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A Kassim-Pasha altri 50 Armeni vengono sgozzati davanti alla Polizia senza che questa intervenga, e di nuovo la ferocia si scaglia contro altri 50 operai armeni che vengono uccisi e gettati in mare.
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Il Gran Visir Said Pasha viene sostituito da Kiamil Pasha, ma la carneficina continua.
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Gli Armeni affluiscono allora in massa all’interno delle Chiese cittadine in cerca di rifugio ed è solo grazie all’intervento degli ambasciatori occidentali che gli Armeni vengono risparmiati.
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Su pressione dell’intervento francese, russo, e inglese, il Sultano Abd-ul-Hamid firma il pacchetto di riforme che interessano le sei province armene (vilayet).
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E’ però troppo tardi, in quanto il Sultano aveva già espresso la necessità di frenare le agitazioni rivoluzionarie propagatesi nei vilayet, ricorrendo alla repressione mano a mano che si fossero presentate.
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Inoltre la sua accettazione delle riforme pro-Armeni provoca un allarmismo e una reazione tra i curdi e i turchi musulmani che sfociarono in un bagno di sangue senza precedenti, di cui possiamo leggere di seguito.
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VILAYET di TREBISONDA :
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Il 4 ottobre 3000 turchi prendono d’assalto i quartieri armeni alla ricerca dei presunti responsabili del ferimento del comandante della milizia locale.
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Il 7 ottobre vengono segnate con la vernice rossa le porte dei cittadini stranieri.
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L’8 ottobre, a mezzogiorno squilla una tromba, che dà il segnale del massacro.
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I turchi armati invadono i quartieri armeni e uccidono tutti coloro che incontrano, irrompendo nei negozi e nelle case, eccetto quelle contrassegnate con la vernice rossa.
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Il bilancio, quando la tromba dà il segnale di cessazione delle ostilità, è di 600 armeni morti.
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Tra ottobre e dicembre i paesi circostanti vengono messi a ferro e fuoco, e si contano 34 villaggi distrutti e 200 armeni assassinati.
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Come se non bastesse, vengono arrestati numerosi armeni, di cui 8 sono condannati a morte, e 24 a diversi anni di galera.
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VILAYET di ERZURUM :
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A Erzurum, nell’antica capitale dell’alta Armenia, la tromba che dà il segnale di inizio alle ostilità suona il 30 ottobre, a mezzogiorno.
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Per tutto il giorno e tutta la notte gli Armeni vengono scannati, scorticati e appesi a uncini da macellaio.
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I cadaveri vengono cosparsi di petrolio e gettati sopra le pire ardenti preparate dai turchi.
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Si contano 400 vittime, accatastate le une sulle altre, insanguinate, mutilate, irriconoscibili.
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A Erzidian, in balia dei carnefici per tutto il 21 ottobre, le vittime sono oltre 1.000.
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A Beyburt dal 13 ottobre in avanti si registrano razzie di turchi e curdi, che provocano la morte di oltre 650 armeni.
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Tutti i maschi del circondario vengono sterminati e 175 villaggi sono messi a ferro e fuoco.
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Il Governo manda poi degli emissari per cancellare le tracce dei crimini.
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I notabili vengono incarcerati e torturati.
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A Trebisonda numerosi gruppi di donne e bambini vagano per le strade, in una regione devastata.
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Gli Armeni sono costretti a convertirsi all’Islamismo.
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Il 14 ottobre, a Kighi, il 23 a Bayazet, e il 27 novembre a Passin, i villaggi vengono incendiati e i sacerdoti cristiani uccisi.
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VILAYET di BITLIS :
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A Bitlis il 25 ottobre echeggia la famigerata tromba, al suono della quale i turchi, armati di sciabole, bastoni e fucili, attaccano gli armeni, sia al mercato cittadino che nelle vie.
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Entro le 17 ne vengono assassinati ben 800.
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Due villaggi del circondario vengono rasi al suolo.
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Le autorità rendono alle famiglie i cadaveri delle vittime, orrendamente mutilati.
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Il 19 novembre vengono saccheggiati i villaggi attorno a Seert, e i preti e gli insegnanti vengono ammazzati, le donne rapite e stuprate, e i superstiti obbligati a convertirsi.
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Attorno a Mush centinaia di villaggi del Sasun vengono devastati e depredati.
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Chiese e conventi sono trasformate in moschee, e i sopravvissuti islamizzati.
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La commissione di inchiesta inviata sul luogo in rappresentanza delle autorità dichiara :
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I curdi si sono comportati male; avevamo dato l’ordine di sopprimere gli Armeni. Hanno saccheggiato invece di uccidere.”
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VILAYET di VAN :
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Qui il saccheggio viene organizzato dalle tribù curde e dai reggimenti di cavalleria Hamidiani istituiti dal sultano.
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Nei primi 20 giorni di novembre ben 160 villaggi vengono saccheggiati e depredati.
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Ogni giorno l’antico monastero di Aghthamar è invaso da migliaia di disgraziati, nudi e affamati, terrorizzati dalle scene di atrocità cui avevano assistito.
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VILAYET di HARPUT (o Mamuret-ul Aziz):
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La provincia sicuramente più colpita.
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La notizia dell’accoglimento delle riforme per gli Armeni da parte del Sultano crea malcontento nei musulmani che iniziano a riunirsi in massa nelle moschee.
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Il 4 novembre i turchi e i curdi saccheggiano il bazar, poi si dedicano alle case del quartiere armeno.
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I morti sono ben 3.000.
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Il 6 novembre altri 3.000 armeni vengono “stanati” dalle chiese in cui si erano rifugiati.
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Adbkir vengono massacrati 2.800 armeni per mano di orde di turchi, composte da schiere di persone assetate di sangue di ogni età, dai vecchi ai bambini, tutti armati.
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Gli Armeni vengono gettati nel fuoco, appesi a testa in giù e scorticati, tranciati con falci e accette, cosparsi di petrolio e arsi vivi, sepolti vivi, decapitati fucilati a gruppi di 50, squartati, soprattutto le donne, a cui vengono strappati i seni.
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Nei dintorni di Harput a fine Ottobre iniziano i massacri : gli abitanti vengono uccisi, i superstiti convertiti a forza, le donne e le ragazze violentate, rapite o forzate a maritarsi con i turchi.
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Alla fine di novembre il vilayet di Harput è una distesa di rovine.
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Diverse decine di migliaia di Armeni sono stati trucidati, compreso i sacerdoti che non si sono sottoposti ad abiura della fede cristiana.
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VILAYET di DIYARBAKIR :
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Il vilayet, in territorio curdo, consta di una minoranza armena, tradizionalmente perseguitata.
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Il 22 ottobre 1895 all’annuncio delle riforme accordate dal Sultano i musulmani del luogo si recano al mercato a comprare armi.
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I notabili si riuniscono per protestare contro le riforme, poi passano all’azione.
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Il 1° novembre i curdi irrompono in città, saccheggiando il mercato e incendiandolo, e uccidendo i cristiani.
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Il giorno successivo l’attacco è rivolto alle abitazioni armene, rubando e ammazzando.
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Il bilancio è di 5.000 armeni uccisi e di 119 villaggi saccheggiati e incendiati.
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Parecchi Armeni vengono inoltre arrestati e torturati per ottenere false confessioni.
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A Palu, cittadina di 12.000 abitanti, l’11 novembre si scatena l’attacco musulmano contro gli Armeni, e tutti gli abitanti di sesso maschile vengono sgozzati.
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Un sacerdote cristiano viene anche smembrato, fatto letteralmente a pezzi.
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Le donne si gettano nel fiume per sfuggire ai Turchi.
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Su 2400 armeni, ne vengono assassinati 1680.
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VILAYET di SIVAS :
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All’inizio di novembre del 1895 dei nomadi curdi invadono la regione, depredando e bruciando i villaggi.
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Il 12 novembre a Silvas tutti i negozi armeni vengono saccheggiati, e vengono uccise 1.500 persone quasi tutte con lo sfondamento del cranio causato da colpi di ascia o di sbarre di ferro.
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150 villaggi vengono saccheggiati.
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A Shabin-Karahisar, il 1° novembre vengono uccise 2.000 persone che si erano rifugiate nella chiesa.
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Il 12 novembre a Gurun, dopo 4 giorni di assedio oltre 2.000 curdi irrompono in città e compiono una vera carneficina ; 1200 morti !
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Il giorno 28 tutti questi cadaveri giacciono ancora per le strade.
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Amasya viene saccheggiata il 25 novembre, e le vittime ammontano a circa 1.000.
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Il 15 novembre, a Mersivan vengono uccisi 150 Armeni, e altri 200 a Vezir-Kopru a metà dicembre.
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VILAYET di ALEPPO :
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Il 27 e il 28 ottobre i curdi dei reparti hamidiani sterminano 900 armeni.
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Le porte delle case vengono sfondate a colpi d’ascia e gli abitanti vengono sgozzati.
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Gli ordini sono tassativi :
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prima il massacro, poi il saccheggio.
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Uno sceicco si fa portare 100 giovani, e dopo averli fatti sdraiare sulla schiena, li sacrifica con un rito coranico, recitando i versetti del Corano.
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Il 29 riprende l’eccidio fino a esaurimento delle vittime.
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Rimangono 3.000 persone che avevano trovato rifugio in chiesa.
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I turchi, dopo averle “stanate” iniziano ad ucciderle una per una, poi danno fuoco alle suppellettili, incendiando tutto.
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I morti arrivano ad essere 8.000, di cui 2.500 uccisi nella cattedrale.
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A Marash il 18 novembre la furia omicida turca provoca oltre 1.000 vittime armene.
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Migliaia di vittime anche nei villaggi nei dintorni di Alessandretta, dove  un numero enorme di cadaveri giace nelle campagne.
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Il 15 e il 17 novembre la cavalleria hamidiana si accanisce su Ayntab e provoca 1.000 morti tra gli Armeni.
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Altre 150 vittime si contano a Biredjik il 1° gennaio.
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In tutto il vilayet di Aleppo scompaiono interi villaggi e orde di sopravvissuti vagabondano senza meta e senza un tetto, in preda alla fame.
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VILAYET di ADANA e VILAYET di ANGORA :
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Turchi e Circassi aggrediscono i Cristiani, bruciano le fattorie e razziano il bestiame.
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A Missis i turchi irrompono nella chiesa armena, profanando gli arredi e oltraggiando il prete.
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Poiché sporge denuncia viene imprigionato ad Adana.
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Bande di Circassi spargono il terrore nei territori di Yozgad e di Hadij-Koy.
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A Kayseri si contano migliaia di vittime.
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Nel 1895 le atrocità si palesano dappertutto nei vilayet armeni, e la frenesia omicida e predatoria riduce l’Armenia ad un cumulo di cenere e di morti.
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Nell’estate del 1896 ebbe luogo l’azione politico-militare più significativa da parte del Dashnak, che assalì la Banca ottomana di Costantinopoli.
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In tale occasione fu diffuso un volantino in cui si chiedevano “riforme giuridiche conformi al sistema europeo” e “la nomina per l’Armenia di un alto Commissario Europeo, designato dalle sei grandi potenze.”
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Dopo 15 giorni le truppe turche uccisero per rappresaglia circa 2.000 armeni nella città di Egin, in cui era nato l’organizzatore dell’assalto alla banca.
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Le responsabilità occidentali furono enormi e si possono riassumere nel comportamento adottato, di non intervento, palesando l’evidenza di una marcata insofferenza  ad occuparsi del problema armeno, relegandolo così entro i limiti di una considerazione di secondaria importanza.
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Gli Armeni hanno anche subìto per lungo tempo le conseguenze di una stereotipizzazione che condusse ad essere polarizzati ed identificati come i responsabili di una frattura sociale.
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La loro classe sociale, politica, ed economica, borghese e privilegiata, anche se numericamente minoritaria, fu messa in contrapposizione con quella dei contadini turchi, da loro sfruttati e resi dipendenti da uno squilibrio conflittuale.
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Tutto ciò senza tenere conto del fatto che la maggioranza della popolazione armena era anch’essa di estrazione contadina.
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In questo modo si venne a creare una sorta di alibi per le responsabilità degli appartenenti all’etnia turca, sfruttata (secondo l’affermarsi di tale assioma ), e quindi soggetta ad essere incline a reazioni, anche se esagerate, in risposta alla “provocazione” armena.
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Inoltre, la borghesia armena venne identificata come collusa, quando non addirittura coincidente, con il capitale finanziario straniero, contrario quindi allo sviluppo di una nazionalizzazione economica e sociale.
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Questa interpretazione, con la quale i nazionalisti turchi trovarono simbiotici elementi di convergenza con la visione tardo-marxista, tendeva ad assolvere i musulmani ottomani dalle proprie responsabilità per le violenze commesse.
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Ma una repressione ben più terribile si profilava all’orizzonte del triste panorama armeno, inarrestabile e carica d’odio, epilogo dei prodromi fin qui narrati : il genocidio e lo sterminio sistematico della popolazione armena, di cui tratterò nel prossimo post dal titolo :
Armeni : il genocidio finale.
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domenica 3 febbraio 2013

I LIMITI DEL MATERIALISMO DIALETTICO MARXISTA

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La visione del mondo attraverso cui il partito marxista-leninista interpreta la concezione dei fenomeni naturali (teoria materialistica) e il metodo adottato per conoscerli (dialettico) si avvale, sia a livello cognitivo che applicativo, di due parallelismi filosofici : il materialismo dialettico e il materialismo storico.
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Il materialismo storico è lo strumento adottato sia da Marx che da Engels per estendere i princìpi del materialismo dialettico ai fenomeni della società, e al loro studio.
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Alcune delle filosofie di pensiero che hanno espresso i tratti fondamentali di questi orientamenti sono da riferire ad altrettanti filosofi del passato, come Hegel e Feuerbach.
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La dialettica di Hegel individua nel processo di creazione del pensiero, che egli trasforma dandogli il nome di Idea, un soggetto indipendente e creatore della realtà (demiurgo), che in ultima analisi altro non è che la manifestazione estrinseca dell’Idea stessa.
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Secondo la concezione di Marx, invece, c’è una sostanziale differenza tra la propria visione dialettica e quella di Hegel, che le pone quindi in netta contrapposizione, essendo l’una l’opposto dell’altra.
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Secondo la concezione marxista, infatti, l’interprete ideale è rappresentato dall’elemento materiale, trasportato e trasposto nel cervello dell’uomo.
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Anche per quanto riguarda l’aspetto legato al materialismo non troviamo una esatta corrispondenza tra il marxismo e i filosofi a cui si ispira questa corrente di pensiero, come ad esempio Ludwig Feuerbach.
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Il suo materialismo, infatti, non si era spogliato del tutto da una influenza spiritualistica, etico-religiosa, e idealistica, che ne sovrapponeva le implicazioni al suo nucleo essenziale.
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L’approccio di Karl Marx e di Friedrich Engels con i riferimenti filosofici di Feuerbach trarrà spunti di convergenza quindi solo dal nucleo essenziale, appunto, da cui saranno sviluppate le teorie filosofico-scientifiche del materialismo.
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 Emergono già, da queste brevi considerazioni, i limiti di un assioma che pone in evidenza l’alternarsi delle contraddizioni esistenti in natura, ponendole in una sorta di posizione di predominanza e di rilievo, senza per altro tenere in considerazioni gli aspetti di ciò che rappresenta l’involucro metafisico e ideologico dell’incedere naturale.
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La condizione della vita nella società, dal punto di vista del materialismo storico, si intende come elemento che deve prescindere dall’ambiente geografico.
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Secondo questo approccio, infatti, il fattore ambientale non è  determinante per lo sviluppo dei cambiamenti della società, così come  non lo sono l’aumento e la densità della popolazione.
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Ci si potrebbe quindi chiedere come mai, nelle zone del Pianeta in cui le condizioni climatiche sono estreme, non si sia verificata una esplosione demografica, come invece è avvenuto nelle zone in cui l’ambiente è meno ostile .
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L’aumento della popolazione inoltre, influisce in maniera determinante all’evoluzione o al regresso, come forza principale, dello sviluppo della società.
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E’ innegabile, infatti, che la forza dei numeri riesca a variare gli assetti geo-politici, e che la forza delle masse possa indurre i Governi o le dittature a modificare interi orientamenti di carattere sociale, politico, o economico.
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La guerra del marxismo contro le ideologie, a favore di un materialismo dialettico, esprime tutta l’insofferenza di un sistema refrattario a qualsiasi forma di idealizzazione  e di misticismo, e respinge  qualsiasi concetto che possa avvicinarsi a considerare il mondo come espressione di una “coscienza” o di uno “spirito universale”.
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La dialettica marxista trae spunto anche dall’evoluzione dello stesso materialismo, rifuggendo da quello meccanicista in quanto invariabile e determinato.
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La concezione materialistica del mondo – secondo Engels – significa semplicemente la comprensione della natura, quale essa è, senza alcuna aggiunta estranea.”
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E’ quindi sufficiente, secondo Engels, conoscere e considerare solo gli aspetti materiali del mondo in cui viviamo, poiché sono questi gli aspetti che rappresentano la realtà oggettiva e costituiscono il dato primario, cui la coscienza può attingere solo come dato riflesso e derivato dalla materia.
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Ne deriva una decisa spersonalizzazione dell’individuo, di cui il marxismo accetta l’esistenza, ma solo come essere reale, oggettivo e materiale, ma indipendente dalla coscienza, dalle sensazioni e dall’esperienza.
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Secondo il materialismo marxista l’unica realtà oggettiva è la materia, che esiste, insieme alla natura, indipendentemente dalla coscienza.
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Il pensiero è un prodotto della materia, cioè del cervello, che ne è l’organo.
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Secondo questo binomio non si può separare  il pensiero dalla materia se non si vuole cadere in errore.
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In particolare Marx vuole dire che la fonte delle idee sociali, delle teorie, delle concezioni politiche e delle sue istituzioni, non va ricercata nello stesso pensiero da cui possono scaturire, ma solo nelle condizioni di vita materiale della società di cui tutto ciò è il semplice riflesso.
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Secondo Marx “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza.”
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Sembra evidente dunque l’esigenza di ottemperare a precise regole di causa-effetto, senza le quali ci si troverebbe in situazioni di amorfa indolenza.
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La stretta correlazione tra l’essenza primordiale di una spinta verso lo sviluppo sociale e l’impatto con l’effettiva contingenza della vita materiale, sarebbero gli unici attori protagonisti di una qualsiasi rappresentazione di carattere vitale e intellettuale.
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Si evidenza, in questa esposizione della dottrina dialettica materialistica marxista, il limite di un circolo chiuso, sterile, e dipendente solo dalle spinte periodiche di quelle masse popolari che richiedono un cambiamento contro le forze morenti della società.
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Le teorie sociali, che costituiscono il motore del cambiamento, si sovrappongono però continuamente, alla ricerca del miglioramento che esprima  lo sviluppo della vita materiale, e quindi nuove mobilitazioni cercheranno di sostituire il nuovo diventato vecchio, e così via.
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La quadratura del cerchio si conclude però in maniera errata, disattendendo le declamate teorie di avanguardia, di cui si vanta il Marxismo, che ricorre in perpetuo all’uso della violenza per perseguire i suoi scopi.
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La rivoluzione è stigmatizzata come metodo di lotta, “democratica” e prodromica al socialismo e al comunismo stesso.
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Mao Tse Tung, il “Grande Timoniere” cinese,  affermava che la chiave necessaria a poter studiare le leggi della storia della società in cui viviamo, si può trovare non nel cervello degli uomini, o  nell’analisi delle loro idee, ma solo nel modo di produzione delle economie della società stessa.
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La conoscenza delle leggi dello sviluppo della produzione sarebbe quindi, secondo il comunismo cinese, di ispirazione e di stimolo per l’economia proletaria.
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I rapporti di produzione agiscono sullo sviluppo delle forze produttive, la cui eventuale crisi sbilancerebbe il carattere di sviluppo.
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A questo punto occorre quindi porsi alcune domande di carattere obiettivo.
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Come mai, allora, sia in Unione Sovietica che nella Cina rivoluzionaria si fa ricorso a vere e proprie schiere di schiavi, sotto forma di dissidenti politici, per ottenere una produzione programmata ?
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Evidentemente il materialismo prevalse su tutto ciò che tentava di sfuggire alle logiche di pensiero preordinate, troncando sul nascere proprio quelle spinte idealistiche che la dialettica comunista aveva sempre combattuto. .
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L’importanza della “norma” da conseguire, e del risultato commerciale, prevale quindi nel mondo comunista ad ogni livello, presentando il risultato materiale come evidenza significativa e prioritaria, al di sopra dei diritti umani e della diversità di pensiero.
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I gulag sovietici e i laogai cinesi hanno perseguito lo scopo di “rieducare attraverso il lavoro” milioni di persone, ree di avere un’opinione diversa da quella del regime comunista.
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Nel brutale percorso persecutorio, gli sventurati deportati sono stati usati come mano d’opera gratuita per la realizzazione di fini commerciali statali, sia sotto forma di realizzazione di grandi opere, che di raggiungimento di target di profitto.
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I concetti che il marxismo sembra osteggiare, quali quelli di sfruttamento dell’operaio, non sono quindi fumo negli occhi ?
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I diritti dei lavoratori, e i loro diritti umani,  non sono quindi avulsi da un contesto di materialismo dialettico ?
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Oppure ne fanno parte, ma insignificanti nel contesto globale di un mondo marxista che ha dimostrato di poter esistere solamente grazie all’uso della forza e della violenza ?
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La lotta di Lenin e di Stalin contro il mondo contadino ha prodotto la grande carestia ucraina, nota come “holodomor”, il genocidio indotto che ha provocato, appunto, milioni di morti.
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Il ricorso al sopruso nelle fabbriche sovietiche comuniste, come la prassi del “cottimo”, o l’obbligo del raggiungimento della norma obbligatoria di produzione giornaliera, sono forse un esito obbligato del materialismo dialettico ?
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La materia al di sopra dell’idea … forse per non avere contradditorio, e per poter spezzare impunemente le voci del dissenso, ricorrendo alla tortura, alla deportazione, e allo sterminio.
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Contestualmente e cinicamente Marx affermò quanto segue, riferendosi all’economia sovietica :
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Non esistono crisi economiche né si distruggono forze produttive.
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E’ un esempio di perfetto accordo tra i rapporti  di produzione e il carattere delle forze produttive.
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Attualmente la Cina comunista sta producendo quantità sempre maggiori di merci di qualsiasi tipo con le quali inonda i mercati europei, non prima di aver diminuito i prezzi di vendita.
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Questo modus operandi rovina la massa di piccoli e medi competitori di vari settori sul mercato europeo (Italia compresa), diminuendo la capacità economica dei paesi ospiti.
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In pratica i cinesi si comportano da capitalisti, e cioè esattamente come coloro che da sempre combattono.
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La contraddizione insanabile mette in risalto la lotta non solo tra sfruttati e sfruttatori, ma anche la convergenza dei tratti comuni tra capitalismo e comunismo.
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Il materialismo sia dialettico che storico, insieme a Marx, e al comunismo, appaiono quindi come un insieme di parole vacue, sterili, fini a sé stesse, fuorvianti, false e contradditorie.
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Alla luce dei fatti, gli stereotipi di riferimento sembrano appartenere non solo ad una contrapposizione rivolta all’universo dell’idealismo filosofico, ma anche e soprattutto ad un sistema che adotta un nichilismo persistente e quotidiano, corrosivo e devastante, pernicioso e consapevole, infame e distruttivo, come unica risorsa veramente distintiva per poterlo contraddistinguere.
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In due parole possiamo tranquillamente affermare :
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COMUNISMO  =  MORTE …
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Dissenso
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sabato 2 febbraio 2013

LACRIME DI COCCODRILLO

sottotitolo :  OCCHETTO E IL MURO DI BERLINO.
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L’estate del 1989 rappresenta per la Storia una data tra le più drammatiche di quel Secolo.
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Infatti nei mesi di Agosto e di Settembre avvenne l’esodo di 45 mila cittadini della DDr (la ex Germania orientale, comunista) che, a causa della caduta del muro di Berlino e del crollo dell’Impero sovietico, potevano finalmente scappare dal “paradiso marxista” in cui erano tenuti prigionieri.
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Il famigerato muro che li relegava entro i ristretti limiti di un territorio soggiogato dalla ferocia comunista era stato abbattuto, insieme ai dittatori che lo avevano eretto.
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La forza inarrestabile dell’evoluzione storica e sociale, spinta verso gli aneliti di una libertà fino ad allora negata, rivelava il prodotto di un risultato sognato da intere generazioni, non ultima quella di Papa Carol Wojtyla.
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I fuggiaschi, allineati nella loro interminabili file di mezzi di ogni tipo, e stipati su automobili scassate e camion stracarichi, oppure con biciclette, o a piedi, premevano alle porte di un Occidente impreparato e refrattario a riceverli.
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Le immagini di tutto ciò, riprese dagli elicotteri della Polizia tedesco-federale e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo, davano la concreta sensazione che qualcosa di storico, e di ineluttabilmente drammatico, stava accadendo.
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Di lì a poco, infatti, il mondo assisterà ad una precisa e altrettanto storica indicazione, data dal Partito comunista ungherese, che annunciò di voler cambiare il proprio nome in Partito Socialista.
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La notizia piombò come un macigno nelle sedi dei partiti politici occidentali creando un notevole sconcerto soprattutto in quelle dei partiti comunisti.
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Achille Occhetto, il Segretario generale del PCI, si recò immediatamente a Budapest per constatare personalmente che l’Ungheria rifiutava di proseguire nel percorso marxista in cui fino a quel momento era stata trascinata, e al suo rientro in Italia dovette constatare l’esito delle elezioni comunali di Roma, estremamente disastroso e nefasto per il suo Partito, che aveva perso il 4 % dei consensi e dei suffragi.
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Dopo appena quattro giorni Occhetto si recò alla “bolognina”, il quartiere del capoluogo emiliano dove aveva sede il PCI, e fece ai presenti uno storico discorso, in cui sancì la fine del Partito Comunista Italiano.
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Il Segretario annunciò tra le lacrime che la storia del PCI era giunta al termine e che il Partito avrebbe cambiato nome.
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In realtà tutto ciò, che potrebbe apparire emotivamente romantico nella sua drammaticità, è invece semplicemente stucchevole e vergognoso, in quanto le lacrime di Occhetto rispecchiavano solamente la sua disillusione e la frustrazione di chi aveva avallato fino ad allora un regime ed una filosofia perdenti e destinati a scomparire.
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Non una lacrima, infatti, fu versata da costoro per le vittime del mostro comunista, che aveva fagocitato milioni di vittime innocenti, e non una parola di scuse fu profferita verso coloro che erano stati ingannati dalla colpevole e cinica disinformazione di un PCI oramai morente.
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Lacrime di coccodrillo, dunque, false e ipocrite, in seguito alle quali Occhetto ha poi provveduto a metamorfizzare lo stesso mostro di prima, cambiando l’abito e il nome con cui era conosciuto, ma mantenendo inalterate le caratteristiche che lo avevano da sempre identificato :
la ferocia, la doppiezza, il dispregio dei diritti umani, e la malvagia perseveranza nel falsare la realtà dei fatti.
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In una parola … il comunismo !
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Dissenso
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