venerdì 13 novembre 2020

L'eccidio di PORZUS

 

Le parole eccidio, strage, e massacro, hanno lo stesso significato ed evocano scenari terribili, sebbene la loro definizione contenga alcune sfumature che ne caratterizzano l’identificazione.

Fra questi tre sinonimi, il termine eccidio si differenza non solo per il numero delle vittime, ma anche per  la violenza dei metodi usati, e trova la sua corrispondenza etimologica nel termine latino excidium, derivato di exscindere, e cioè squarciare, distruggere, annientare…

La definizione di eccidio calza perfettamente se riferita a molte delle atrocità commesse dai partigiani comunisti che imperversarono durante e dopo la seconda guerra mondiale in Italia.

Mi riferisco in particolare all’eccidio di Porzus, in cui l’odio comunista, guidato e veicolato con subdola maestria dai criminali comunisti Luigi Longo e Palmiro Togliatti, capi del PCI e legati indissolubilmente a Mosca e a Stalin, si scatenò contro diciassette partigiani della Brigata Osoppo, colpevoli di non essere comunisti.

Gonfalone del
Friuli Venezia Giulia

Le vittime, tra cui una donna, erano di orientamento cattolico e laico-socialista ed erano quindi considerate un ostacolo al piano eversivo e criminale attraverso cui i partigiani comunisti intendevano prendere il potere a guerra finita.

I partigiani legati al Partito Comunista Italiano formarono dei piccoli gruppi denominati con l’acronimo GAP, a indicare i Gruppi di Azione Patriottica (che di patriottico non avevano proprio nulla), appartenenti alle famigerate e tristemente famose Brigate Garibaldi.

Questi raggruppamenti erano caratterizzati dalla presenza di personaggi dalla forte caratura delinquenziale e si resero responsabili di crimini efferati contro l’umanità.

La località di Porzius è ubicata nei territori del Friuli, in provincia di Udine, in un territorio di confine nord orientale della Penisola che negli anni ’40 era denominato Slavia Friulana, e a quei tempi fu teatro di confronto fra i partigiani comunisti jugoslavi che ne rivendicavano il possesso, e le formazioni partigiane italiane in lotta contro il nazismo e il fascismo.

Nel contesto partigiano italiano presente in Friuli, si potevano differenziare due differenti tipologie di formazioni : una che si riconosceva nell’indirizzo politico comunista espresso dalle Brigate Garibaldi, in particolare quelle inserite nella Divisione Garibaldi Natisone, esclusivamente comunista, e l’altra che faceva riferimento alle Brigate Osoppo Friuli.

Queste ultime nacquero il 24 dicembre 1943 presso la sede del Seminario Arcivescovile di Udine, in cui si riunirono numerosi volontari di ispirazione cattolica, liberale, socialista e laica, allo scopo di contribuire, alla fine del conflitto, a salvare ciò che dell’Italia poteva ancora essere salvato.

Va detto anche che l’intento di queste formazioni di patrioti era quello di combattere i tedeschi con metodi diversi da quelli comunisti, privilegiando e rispettando democraticamente le esigenze della popolazione locale.

Premesso ciò, va anche detto che i contrasti fra le formazioni partigiane comuniste e quelle che invece non si riconoscevano nei dictat imposti dall’ortodossia staliniana a cui Togliatti e Longo facevano riferimento, erano molto aspri e fomentati dalla direzione del PCI, nella convinzione che al termine del conflitto mondiale i comunisti italiani avrebbero potuto prendere il potere con le armi e diventare così un satellite russo.

La Storia ci dice che si registrarono uccisioni di partigiani non comunisti, da parte dei Garibaldini del PCI, in ogni regione in cui tali Brigate erano presenti, oltre ad un imprecisato numero di crimini di ogni tipo.

Fin dal 1933 le delegazioni dei partiti comunisti italiano, jugoslavo, austriaco, riuniti a Mosca per decidere una strategia unitaria sul problema dei territori sloveni contesi, decisero di schierarsi con le minoranze di etnia slava sollecitandole a costituire un fronte popolare e a distaccarsi dallo Stato italiano.

Si evince quindi la precisa volontà dei comunisti italiani di tradire lo Stato e la popolazione stessa, prostituendosi alla Jugoslava ed esibendo in contrapposizione il comodo alibi  costituiva dal ruolo autoreferenziale nella  lotta antifascista.

Lo stesso Togliatti, il peggior criminale che la Storia d’Italia ricordi, nominò Vincenzo Bianco  come delegato del Partito presso il fronte di Liberazione Sloveno, il quale si fece portavoce delle criminali intenzioni del PCI :

Fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti all’interno delle formazioni partigiane italiane

Nel mirino di Togliatti c’erano anche le formazioni partigiane della Brigata Osoppo, considerate per opportunità politica come nemici, poichè composte da badogliani (Regno del sud, non collegati al Comitato di Liberazione Nazionale) e da seguaci del Partito d’Azione (democratici, repubblicani, radicali).

Lo squallore intellettuale dei comunisti italiani, prostituiti al moloch jugoslavo, si palesò con farneticanti prese di posizione con cui dichiararono di voler sacrificare l’intera Venezia Giulia e di considerare una fortuna l’ingresso dell’esercito di Tito, coadiuvato da quello sovietico, in quei territori.

In questa ottica possiamo oggi affermare senza incertezze che la strage di Porzius non costituì un “incidente di percorso” della cosiddetta “resistenza” comunista italiana, ma un preciso elemento della strategia con cui Togliatti e Longo intendevano annettere alla ex Jugoslavia la Venezia Giulia e una parte del Friuli.

La Divisione Garibaldi “Natisone”, passò quindi per ordine di Togliatti, sotto il comando del IX° Korpus titino e inquadrata in tre Brigate : 156a Bruno Buozzi, 157a Guido Picelli, e 158a Antonio Gramsci.

Vincenzo Bianco comunicò loro che sarebbero stati integrati completamente e a tutti gli effetti nell’esercito di Tito e trasferiti prima in Slovenia e poi a Lubiana.

In quella occasione i comandi delle Brigate Osoppo presero le distanze dall’iniziativa, rifiutandosi di aderire e affermando di fare riferimento al CLN.

Il contrasto fra i partigiani comunisti comandati da Longo e da Togliatti e le formazioni della Osoppo si acuì ulteriormente, sfociando in interferenze e tentativi di prevaricazione, come nel caso del rastrellamento di Pielungo, nel 1944.

In tale occasione, ci furono destituzioni (imposte dalle Brigate Garibaldi) di comandanti delle Brigate Osoppo, sostituiti con altri militari appartenenti all’organigramma comunista, seguite da altrettante destituzioni con cui i vertici della Osoppo rimisero al proprio posto di comando i precedenti comandanti.

Le brigate Osoppo erano nettamente contrarie all’avanzata del cosiddetto slavo-comunismo, e tentarono anche una qualche forma di accordo con la Xa Mas di Junio Valerio Borghese, nel tentativo di “umanizzare” una guerra che costringeva le popolazioni a subirne gli effetti.


Informativa della prefettura di Udine che attesta
l'opposizione  delle Brigate Osoppo al comunismo 

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Le trattative non portarono però a nessun accordo, ma questo approccio, insieme al diniego di lasciarsi fagocitare dall’esercito titino, fu sufficiente ai partigiani comunisti per definire come tradimento il modus operandi della Osoppo.

I comunisti sloveni, forti della complicità dei partigiani garibaldini di Longo, orchestrarono una insistente campagna anti-italiana allo scopo di costringere le Brigate Osoppo a sgomberare la zona e facilitando così l’annessione di quei territori alla Jugoslavia.

In questa atmosfera, segnata da intrecci politici e alimentata da un odio comunista sempre presente e simbiotico con la propria essenza ideologica, prese corpo il crimine di guerra ideato dai vertici gappisti delle formazioni comuniste partigiane Garibaldi.

Seguendo un piano freddamente predeterminato a tavolino, un centinaio di gappisti (i cosiddetti Gruppi di Azione Patriottica) comunisti raggiunsero, il 7 febbraio 1945, le pendici dei monti Toplj Uorch, e le malghe di montagna denominate Porzus, nel comune di Faedis, in Provincia di Udine, sede del comando locale delle Brigate Osoppo.

In questa località era tenuta prigioniera Elda Turchetti, una ragazza accusata da “Radio Londra” di essere una spia collaborazionista dei nazisti (accusa rivelatasi infondata nel processo in cui alcuni giorni prima fu giudicata e ritenuta innocente).

La presenza della donna costituì in seguito uno squallido alibi esibito a difesa dell’intervento comunista contro i partigiani della Osoppo.

Il comandante dei partigiani comunisti era Mario Toffanin alias “Giacca”, a quel tempo 32enne, ex operaio iscritto al Partito Comunista Italiano dal 1933 e in stretti rapporti con i comunisti jugoslavi, coadiuvato dal suo vice, tale Fortunato Pagnutti, alias “Dinamite”.

I partigiani comunisti si presentarono a gruppi, ambiguamente, affermando di essere combattenti sbandati o appartenenti ad altre unità della stessa Osoppo, creando così i presupposti perché Toffanin prendesse il controllo delle malghe, richiedendo allo stesso tempo la presenza del Comandante di Francesco De Gregori, nome di battaglia “Bolla”, Comandante della Osoppo locale.

Quando De Gregori (zio dell’omonimo cantautore e deciso anticomunista) arrivò a Porzus fu immediatamente ucciso a tradimento e tutti i partigiani della Osoppo vennero arrestati.

Insieme al Comandante furono uccisi anche Elda Turchetti, il Commissario politico del Partito d'Azione Gastone Valente ("Enea"), e il ventenne Giovanni Comin ("Gruaro"), mentre un altro Comandante delle Osoppo, Aldo Bricco (alias "Centina"), sebbene fosse stato colpito e ferito da colpi di mitra riuscì a fuggire, insieme ad altri tre.

Nei giorni seguenti tutti i prigionieri vennero sottoposti ad una sorta di processo sommario che si concluse con le loro condanne a morte, eseguite tra il 10 e il 18 febbraio.

I prigionieri vennero condotti a gruppi separati nelle seguenti località del territorio e fucilati :

Bosco Romagno:

Guido Pasolini (Ermes), Antonio Previti (Guidone), Antonio Cammarata (Toni), Pasquale Mazzeo (Cariddi).

Rocca Bernarda:

Franco Celledoni (Atteone), Primo Targato (Rapido), Angelo Augelli (Massimo).

Restocina di Dolegna:

Salvatore Saba (Cagliari), Giuseppe Urso (Aragona), Enzo D'Orlandi (Roberto), Gualtiero Michelon (Porthos), Erasmo Sparacino (Flavio).

Novacuzzo di Bosco Romagno:

Giuseppe Sfregola (Barletta).

Salma non ritrovata:

Egidio Vazzaz (Aldo).

L’odio comunista uccise così ben diciotto persone, tra cui Guido Pasolini (alias “Ermes”), fratello minore dello scrittore e regista Pierpaolo.

L’omicidio del fratello, a cui Pierpaolo Pasolini era molto legato, è stato spesso ricordato, anche con allusioni, in molte opere scritte successivamente dallo scrittore, in particolare nelle poesie che in quegli anni vennero concepite ed editate in dialetto friulano e in italiano.

Nel dopoguerra, a Guido De Gregori fu riconosciuta la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

I criminali partigiani delle formazioni garibaldine si arrogarono il diritto di decidere della vita o della morte di altri partigiani non comunisti, sbandierando accuse faziose e meschine, frutto della mente malata dei capi comunisti che guidavano il movimento comunista partigiano assassino.

L’accusa principale che secondo il loro metro di giudizio giustificava l’eccidio di esseri umani innocenti era quella di essere contrari all’alleanza con il comunismo jugoslavo e le sue truppe partigiane, e di aver trattato con i fascisti della Xa Mas di Borghese per impedire l’annessione dei territori italiani alla Slovenia.

Dopo la guerra vennero fatti diversi processi per chiarire l’accaduto e per stabilire le responsabilità dell’eccidio di Porzus, sempre ricordato e celebrato dai veterani della Osoppo.

Purtroppo però anche nel dopoguerra l’odio comunista si è manifestato in tutto il suo squallore, tentando di condurre verso l’oblio questa tragica vicenda e opponendosi costantemente agli anticomunisti.

Mario Toffanin (alias “Giacca”) venne comunque riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo nel 1954, ma nella consapevolezza dei crimini commessi cercò e trovò un immediato aiuto nel PCI il quale lo fece espatriare nell’immediato dopoguerra, permettendogli così di sfuggire alla galera.

Il PCI di Togliatti e Longo gli preparò infatti un rifugio sicuro prima in Cecoslovacchia e poi in Slovenia, in totale disprezzo sia delle leggi italiane che delle vittime della Brigata Osoppo, considerate ancora, nonostante tutto e pervicacemente, come dei traditori che avevano collaborato con i soldati della Repubblica di Salò.

Trentasei componenti della brigata criminale comunista che parteciparono al massacro furono condannati dal Tribunale nel 1952, ma vennero successivamente tutti liberati in seguito a varie amnistie.

Ecco le condanne inflitte ad alcuni degli assassini comunisti :


Mario Toffanin  (alias Giacca)

ERGASTOLOPena alla quale si aggiungono trent'anni di reclusione per sequestro di persona, rapina aggravata, estorsione e concorso in omicidio aggravato e continuato.


Vittorio Iuri (alias Marco)

ERGASTOLO - Visse il resto della propria vita a Capodistria, maturando la pensione italiana e gestendo un bar.


Alfio Tambosso (alias Ultra )

ERGASTOLO  -  Si stabilì a Lubiana e rientrò in Italia dopo l'amnistia del 1959.


Ostelio Modesti (alias Franco)

Condannato a 30 anni di carcere – Venne scarcerato nel 1954, e assunto come funzionario della federazione del PCI di Belluno. 
 

Giovanni Padoan (alias Vanni)

Condannato a 30 anni di carcere – Riparò all'estero e nel 1954 fu eletto Segretario Regionale dell'ANPI del Veneto. Fuggì nuovamente dopo la condanna di Firenze e rientrò in Italia dopo l'amnistia, gestendo un negozio di mercerie a Cormons.


Aldo Plaino (alias Valerio)

Condannato a 30 anni di carcere -  A seguito dell'amnistia rientrò in Italia dalla sua residenza nel Territorio Libero di Trieste. Autista, una volta pensionato si trasferì a Buttrio.

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Lorenzo Deotto (alias  Lilli)>

Condannato a 22 anni e 8 mesi di carcere - Riparò a Zagabria dove lavorò come vetraio.

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Leonida Mazzaroli  (alias Silvestro)

Condannato a 22 anni e 8 mesi di carcere - Riparò in Francia dove visse e morì. 
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Urbino Sfiligoi  (alias Bino)

Condannato a 22 anni e 8 mesi di carcere – Rientrò in Italia dopo l'amnistia, e lavorò come minatore.

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Tullio Di Gaspero  (alias Osso>)

Condannato a 20 anni e 8 mesi di carcere, fu detenuto dal 49 al 59, poi da liberò si trasferì in Friuli  per svolgere l’attività di artigiano nel comparto delle sedie.

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Adriano Cernotto  (alias Ciclone)

Condannato a 18 anni di carcere - Riparò ad Umago (Croazia), dove fece l'albergatore.

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Giorgio Julita (alias Jolli)

Condannato a 18 anni di carcere – Fu arrestato nel 49 e visse fra l'Italia e la Jugoslavia.

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Venuto Mauri (alias Piero)

Condannato a 18 anni di carcere - Non rientrò in Italia dopo l'amnistia. 
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Mario-Giovanni Ottaviano (alias Bibo)

Condannato a 18 anni di carcere - Dopo l'amnistia aprì un negozio di mercerie a Trivignano Udinese.

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Fortunato Pagnutti  (alias Dinamite)

Condannato a 18 anni di carcere - Visse in Italia lavorando come operaio edile.


Giorgio Sfiligoi  (alias Terzo)

Condannato a 18 anni di carcere - Visse in Slovenia ai confini del Collio friulano.

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Gustavo Bet (alias Gastone)

Fu assolto e divenne albergatore a Lignano Sabbiadoro.

Nel 1978 l’arroganza delle sinistre si palesò nuovamente, relativamente a questa vicenda, per mano dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, in osservanza alla rigida ortodossia che lega i seguaci di Marx, concesse la grazia a Toffanin, oltraggiando ulteriormente la Giustizia, le vittime, e le loro famiglie.

Il Boia di Porzus, lampante esempio della vigliaccheria insita nelle bande comuniste partigiane assassine che imperversavano impunemente in Friuli (ma non solo) non tornò in Italia dopo la Grazia, ma rimase in Slovenia.

Il macellaio comunista, nonostante i crimini contro l’umanità commessi, percepì dallo Stato italiano anche una pensione di 672.000 Lire mensili fino al gennaio 1999, anno in cui morì all’età di 86 anni.

Va detto, per completezza di informazione, che il Presidente Pertini nel 1980 alla morte del dittatore Josip Broz Tito, massacratore delle popolazioni di etnia italiana, si precipitò a rendergli omaggio, baciando addirittura il feretro e la bandiera nella quale il carnefice comunista era avvolto.

La strage di Porzus si inserisce in un contesto nel quale emerge inconfutabilmente la diretta e precisa responsabilità dei quadri direttivi comunisti italiani nel disegno eversivo attraverso cui essi intendevano sacrificare la sovranità nazionale, territoriale, e costituzionale, al moloch comunista.

Le finalità criminali dell’apparato comunista, a lungo nascoste dall’universo pseudo intellettuale delle sinistre, appartengono oggi alla storia conclamata e oggettiva che tutti dovrebbero conoscere, ma il muro di omertà eretto dagli eredi di Togliatti, pur metamorfizzati, continua a ostacolare la diffusione della verità.

Una verità che è trapelata anche dalle dichiarazioni di alcuni degli stessi responsabili delle operazioni criminali commesse dai partigiani comunisti, come ad esempio le affermazioni di Giovanni Padovan, alias “Vanni”, Commissario politico della Divisione Garibaldi “Natisone” a quei tempi.

Questa è la sua testimonianza :

"L'eccidio di Porzus e del Bosco Romagno, dove furono trucidati 20 partigiani osovani, è stato un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione.

E la Corte d'Assise di Lucca ha fatto giustizia condannando gli autori di tale misfatto.

Benché il mandante di tale eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori, però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del PCI di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto e siccome i Gap erano formazioni garibaldine, quale dirigente comunista d'allora e ultimo membro vivente del Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli", assumo la responsabilità oggettiva a nome mio personale e di tutti coloro che concordano con questa posizione.

E chiedo formalmente scusa e perdono agli eredi delle vittime del barbaro eccidio.

Come affermò a suo tempo lo storico Marco Cesselli, questa dichiarazione l'avrebbe dovuta fare il Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli" quando era in corso il processo di Lucca.

Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile".


Oggi gli eredi di Togliatti e Longo sono confluiti, attraverso una metamorfosi  che ha modificato l’aspetto ma non la sostanza della loro essenza ideologica criminale, nel cosiddetto Partito Democratico, il quale si è appropriato del termine “democratico”, appunto, in maniera del tutto arbitraria, falsandone il significato e creando un evidente quanto disgustoso ossimoro.

Parallelamente all’immagine che il PD vuole dare sé, emerge tutta l’ambiguità che ne costituisce l’essenza, palesata nel continuo disprezzo delle vittime del comunismo e nell’incessante martellamento sociale, psicologico, mediatico, politico, intellettuale, didattico, con cui i seguaci di Togliatti glorificano i partigiani comunisti assassini da un lato, mentre dall’altro oscura e mistifica la realtà dei fatti, occultandola e ricorrendo all’omertà congenita che da sempre accompagna la sua sphaera vitae.

Non è un caso che mentre i politici delle sinistre intonano la trita e ritrita canzonetta “Bella ciao!” vengano allo stesso tempo profanati i luoghi del ricordo delle vittime del comunismo, come nel caso in cui le lapidi commemorative  poste accanto ad alcune foibe sono state imbrattate con simboli comunisti disegnati con vernice rossa.

I massacri delle foibe rappresentano una tragica realtà delle zone carsiche, del Friuli Venezia Giulia e delle zone istriane e dalmate, a testimonianza del fatto che all’orrore comunista non c’è mai fine.

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Dissenso

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lunedì 12 ottobre 2020

CRIMINI PARTIGIANI : L'eccidio di Malga Bala

 

Imprigionati, deportati, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi: fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri Reali, catturati nel 1944 dai partigiani comunisti sloveni e italiani alle Cave dei Predil, nellalto Friuli.

I Carabinieri Reali, a quel tempo sotto il Comando tedesco,  costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di “Bretto di sotto”, oggi territorio sloveno, che produceva energia per l’intera popolazione della vallata e per la miniera di Cave del Predil, appunto, situata a 10 chilometri da Tarvisio.

A loro era stato chiesto, dopo l’8 settembre 1943, di rimanere al loro posto, al fianco delle popolazioni, per assicurare la regolarità delle funzioni civili (ordine pubblico e polizia giudiziaria) e delle funzioni militari (protezione degli impianti industriali e di pubblica utilità).


Stemma dei Carabinieri Reali

La vigliaccheria partigiana delle bande armate comuniste in quel periodo si accaniva contro obiettivi militari tedeschi mediante agguati e attentati, ben sapendo che ciò avrebbe scatenato le rappresaglie naziste (consentite dai codici di guerra) contro le popolazioni civili.

Dopo aver subito gli attacchi dei “valorosi” partigiani comunisti, che prima si rendevano responsabili delle inevitabili rappresaglie e poi si davano alla macchia, il commissario germanico Hempel richiese al Comando militare la costituzione di un Distaccamento fisso di Carabinieri a protezione della centrale idroelettrica.

Il 23 marzo 1944 però i partigiani assassini di Tito misero in atto un piano criminale, volto a seminare terrore e a destabilizzare quei territori su cui il comunismo titino voleva estendere i suoi artigli, pianificandolo in due fasi.

Dapprima presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino Perpignano, comandante del distaccamento, e il Carabiniere Attilio Franzan, catturandoli mentre rientravano dal paese e si dirigevano verso gli alloggiamenti.

I due partigiani Ivan Likar, detto Socian, e Zvonko, costrinsero i due prigionieri sotto la minaccia delle armi a pronunciare la parola dordine all’ingresso del Presidio, riuscendo così a penetrarvi con facilità insieme agli altri comunisti assassini che nel frattempo avevano circondato la caserma.

Una volta entrati i partigiani catturarono tutti i Carabinieri, sorprendendoli in parte addormentati, e dopo essersi abbandonati ad un criminale saccheggio dei locali, li costrinsero a portare in spalla tutto il materiale trafugato (armi, munizioni, vestiti, cibo, attrezzi, e turbine) mentre a piedi si dirigevano verso la salita che conduceva al Monte Izgora (circa mille metri di altitudine), poi scendendo verso la Val Bausiza, e infine risalendo ancora verso l’altopiano di Bala, appena fuori Tarvisio.

I dodici Carabinieri furono così deportati nel luogo  in cui avrebbero trovato la morte per mano assassina dei vili partigiani comunisti, dei quali ancora oggi le squallide Associazioni come l’Anpi ne commemorano le gesta, a ribadire il loro disprezzo per la Democrazia e i diritti umani.

La sera del 24 marzo 1944 i partigiani decisero di effettuare una sosta, e di pernottare sull’altopiano di Logie, (853 metri di altitudine), rinchiudendo i prigionieri in una stalla.

Quella sera la ferocia comunista e la vigliaccheria partigiana, che hanno sempre contraddistinto l’operato degli “eroici” fautori della cosiddetta “resistenza”, si manifestò con sadico cinismo.

Ai militari venne infatti servito un pasto caldo, costituito da un minestrone nel quale era stata aggiunta soda caustica, varechina e sale nero, nella consapevolezza che i prigionieri affamati avrebbero inconsciamente mangiato tutto ciò che era nel piatto.

Il minestrone avvelenato fu preparato dalle donne della famiglia di Lois Kravanja, uno dei partigiani del commando criminale, composta esclusivamente da elementi comunisti titini, ben felici di esprimere così il loro odio irrazionale e sadico.

Dopo breve tempo i Carabinieri avvelenati iniziarono a contorcersi dal dolore fra atroci spasimi, urlando e implorando i loro carnefici in una lunga agonia che si protrasse per diverse ore.

Il mattino seguente, il 25 marzo 1944, nonostante il fatto che i prigionieri fossero stremati dalla dissenteria provocata dall’ingestione di sale nero e in preda a dolori lancinanti causati dall’azione necrotica della soda caustica, che nel frattempo aveva ustionato faringe, esofago e stomaco, vennero obbligati dai “valorosi” partigiani comunisti titini a marciare fra atroci sofferenze verso Malga Bala, la destinazione finale in cui sarebbero stati uccisi.

Ecco i nomi delle dodici vittime della brutalità comunista e partigiana :

AMENICI Primo (n. a Santa Margherita d’Adige (PD) il 5/09/1905) Carabiniere

BERTOGLI Lindo (n. a Casola Montefiorino (MO) il 19/03/1921 Carabiniere

CASTELLANO Michele (n. a Rocchetta S’Antonio (FG) il 11/11/1910 Car. ausil.

COLZI Rodolfo (n. a Signa (FI) il 3/02/1920 Carabiniere

DAL VECCHIO Domenico (n. a Refrontolo (TV) il 18/10/1924 Carabiniere

FERRETTI Fernando (n. a San Martino in Rio (RE) il 4/07/1920 Carabiniere

FERRO Antonio (n. a Rosolina (RO) il 16/02/1923 Carabiniere

FRANZAN Attilio (n. a Isola Vicentina (VI) il 9/10/1913 Carabiniere

PERPIGNANO Dino (n. a Sommacampagna (VR) il 17/08/1921) Vicebrigadiere

RUGGIERO Pasquale (n. a Airola (BN) il 11/02/1924 Carabiniere

TOGNAZZO Pietro (n. a Pontevigodarzere (PD) il 30/06/1912 Car. ausiliario

ZILIO Adelmino (n. a Prozzolo di Camponogara (VE) il 15/06/1921 Carabiniere



Ecco di seguito le modalità attraverso cui la vigliaccheria partigiana comunista ha confermato la sua infima caratura morale, non superiore a quella di
 scarafaggi o di topi di fogna, quali essi sono.

I prigionieri stremati e consumati dalla febbre, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), vennero sottoposti allo sfrenato sadismo che caratterizza l’operato degli aguzzini comunisti.

Il Vicebrigadiere Perpignano venne afferrato per primo e spogliato, poi i partigiani gli conficcarono un legno ad uncino nel nervo posteriore di un calcagno, e lo issarono con una corda legata ad una trave a testa in giù, come se fosse un quarto di bue, infine non contenti gli squallidi assassini lo incaprettarono e lo finirono a calci in faccia e in testa.

L’incaprettamento, per chi non lo sapesse consiste nel legare mani e piedi dietro la schiena, facendo passare la corda attorno al collo e provocando lo strangolamento a causa dei movimenti dell’incaprettato stesso.

Nel frattempo gli istinti più selvaggi e brutali dei partigiani palesarono la loro indole criminale con comportamenti inumani, come quello di colpire i prigionieri con violente picconate su ogni parte dei corpi.

I macellai partigiani tagliarono i genitali ad alcuni prigionieri, ancora vivi, e glieli conficcarono in bocca, dimostrando un disprezzo che va al di là dell’umana comprensione e proseguendo la tortura mediante la frantumazione degli occhi e l loro asportazione dalle orbite.

Ad altri prigionieri venne aperto il cuore a picconate, oppure veniva cucita la bocca con filo di ferro dopo averli castrati.

Al Carabiniere Primo Amenici venne aperto il cuore per conficcargli dentro la fotografia dei suoi cinque figli che teneva nel portafoglio.

Dopo la feroce mattanza i Carabinieri furono legati col filo di ferro e trascinati come sacchi sotto un grande masso, e ricoperti sommariamente di neve.

I corpi straziati furono rinvenuti casualmente da una pattuglia di militari tedeschi della Wehrmacht la sera del 28 marzo 1944, e recuperati.


Tarvisio : Sacrario delle vittime di Malga Bala

Oggi i resti mortali di queste vittime del comunismo partigiano riposano, nell’artificioso oblio imposto dai seguaci di Togliatti e dalla compiacenza politica istituzionale, nella torre medioevale della Chiesa a Manolz di Tarvisio, le cui chiavi sono custodite dalle suore di un vicino convento.

I resti di Dino Perpignano di Domenico Dal Vecchio, e di Antonio Ferro sono stati invece riportati nelle località di provenienza dalle rispettive famiglie.

Nel 2018 il Generale dell’aeronautica militare Mario Arpino, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, oggi ultra ottantenne, ha ricordato l’eccidio testimoniando quanto segue :

 

Ero un ragazzino, avevo sette anni nel 1944.

Ho visto quei corpi, ancora me li ricordo.

Stavamo passando da lì, appena fuori Tarvisio, con mio padre.

Eravamo sulla moto, io sul seggiolino dietro.

“Non guardare, non guardare, copriti gli occhi”, mi disse mio padre.

Ma non lo ascoltai.

Erano ghiacciati, denudati, i lividi degli scarponi, forse li avevano finiti a calci.

Uno aveva ancora il manico spezzato di un piccone infilzato nel petto, un paio la bocca cucita con il filo di ferro

 

Oggi si conoscono alcuni dei nomi dei feroci criminali titini che presero parte all’eccidio di Malga Bala, tutti appartenenti alla 17a Brigata comunista Simon Gregorcic del IX° Corpo d’Armata jugoslavo :

 

Socian

Ivan Likar (nome di battaglia Socian e/o Janko), classe 1921, di Bretto di sotto (Slovenia), ideatore della strage, ex minatore, ex alpino e già dipendente delle miniere di Cave, a capo della Brigata partigiana dell’alto Isonzo.

Nonostante tutti i suoi crimini percepirà poi una pensione dallo Stato italiano, insieme agli altri assassini comunisti suoi compagni.

Inoltre passerà indenne attraverso le indagini, se così si può dire, della magistratura slovena, la quale dapprima lo accusò e successivamente lo assolse dalle accuse per l’eccidio di Malga Bala con la seguente motivazione:

“Gli elementi acquisiti risultano non idonei a sostenere l'accusa".

 

Josko
Franc Ursic (nome di battaglia Josko), di Caporetto (Slovenia), che ha poi pagato la sua ferocia e la sua crudeltà.

Fu catturato dai tedeschi e cremato, dopo essere torturato, nel lager della Risiera di Trieste  il 7 aprile 1945.

L’assassino partigiano e comunista ha così finalmente provato sulla sua pelle il significato di tortura verso un essere umano.

 

Silvo Gianfrate (nome di battaglia Srecko), di Foggia. Capo gappista che operava lungo il confine tra Italia ed ex Jugoslavia.

 

Franz Pregelj, ex insegnante che ricopriva l’incarico di Commissario politico del IX° Corpo d’Armata.

 

Lojs (o Aloiz) Hrovat, di Plezzo (Slovenia).

In qualità di Commissario politico del territorio, da cui dipendeva l’approvazione di qualunque azione della Brigata, è responsabile dell’eccidio.

Percepisce dallo Stato italiano una pensione di guerra che ritira mensilmente nella banca di Tarvisio, a due passi dalla torre in cui riposano i resti di alcune delle vittime trucidate a Malga Bala.

Nel ’99 la Procura di Tolmezzo gli ha inviato un avviso di garanzia come sospettato di aver capitanato l’orribile strage.

 

Zvonko, partecipò insieme a “Socian” all’aggressione dei Carabinieri del presidio “Cave del Predil” per estorcere loro la parola d’ordine.

 

Lojs Kravanja, fiancheggiatore comunista.

Le donne della sua famiglia, composta da criminali partigiani titini assassini, prepararono il minestrone avvelenato con soda caustica, varechina e sale nero, che diedero da mangiare ai carabinieri prigionieri.

Questo sadico massacratore si occupò di trascinare, insieme al compare Bepi Flais,  i corpi dei Carabinieri, man  mano che venivano trucidati, seviziati, evirati, e uccisi, sotto un grosso masso e ricoprendoli sommariamente di neve.  

 

Bepi Flais, compare di Lojs Kravanja nell’occultamento sommario delle loro stesse vittime.

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Tarvisio : Commemorazione delle vittime dell'eccidio di Malga Bala

Il negazionismo comunista ancora oggi tenta goffamente di nascondere la verità, esattamente come fece per decenni a proposito dell’eccidio di Katyn l’apparato disinformatore delle sinistre.

In quel caso i mistificatori comunisti incolparono i tedeschi dell’orribile strage di polacchi del 1940 in Bielorussia, reiterandone l’orrore e puntando il dito contro il nazi-fascismo, salvo poi essere sbugiardati e svergognati dalle dichiarazioni di Michail Gorbacev nel 1990 e di Boris Eltsin nel 1992.

Cinquant’anni di menzogne continue alimentate dai comunismi europei e dall’odio che li contraddistingue, esattamente come nel caso del negazionismo con cui ancora oggi gli scarafaggi partigiani tentano di nascondere i loro squallidi misfatti.

Per quanto riguarda l’eccidio di Malga Bala, ci sono voluti ben 65 anni prima che a queste vittime della furia partigiana comunista e assassina venisse concesso il diritto di uscire dal limbo silenzioso e immemore in cui gli intellettualoidi dell’informazione manipolata dalle sinistre li avevano relegati.

E’ stato necessario raccogliere 3500 firme e continuare a bussare al Quirinale e ai vari ministeri per decenni prima che si arrivasse a onorarne la memoria.

Finalmente nel 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha concesso ai 12 Carabinieri i doverosi riconoscimenti che consistono nelle medaglie d’oro al Merito Civile e alla Memoria, consegnate ai familiari delle vittime dal Comandante Generale dell’Arma.

Il 23 marzo 2019, nel corso di una cerimonia solenne organizzata dall’Arma dei Carabinieri per il 75° Anniversario dell’eccidio di Malga Bala, il Comandante Generale Giovanni Nistri ha reso onore ai 12 Carabinieri decorati di Medaglia d’Oro al Merito Civile, deponendo una corona d’alloro all’interno del Tempio Ossario dove sono custodite le spoglie di 7 delle 12 vittime dell’odio comunista. 



Un riconoscimento che arriva dopo decenni di silenzio, e che stranamente è stato concesso proprio da chi ha fatto del comunismo una sorta di religione e di assioma indiscutibile, Giorgio Napolitano.

Un Presidente che ha manifestato la sua benevolenza concedendo la Grazia ad un efferato criminale comunista come Ovidio Bompressi, l’assassino comunista di “Lotta Continua” che freddò con due colpi di pistola il Commissario di Polizia Luigi Calabresi nel 1972.

Anche a Calabresi, vittima del furore comunista espresso da colui che è stato graziato da Napolitano, è stata concessa la medaglia d’oro al merito civile.

Tutto ciò appare come fumo negli occhi, come strategia per mimetizzare le proprie responsabilità e la propria indole, sbilanciate a favore di una irrazionale appartenenza all’Universo marxista leninista.

Come comunista, fin dal 1945, è stato complice di Togliatti e delle sue politiche criminali, schierandosi sempre verso una palese compiacenza ai dictat di Mosca, come nel caso dei Moti d’Ungheria del 1956 bollati come controrivoluzionari e opera di spregevoli provocatori.

Il vero riconoscimento al merito e alla memoria per le vittime di Malga Bala non è quindi quello concesso da un ex Presidente che ha passato buona parte della sua vita a incensare falsi profeti come quelli idealizzati dal comunismo, bensì quello che proviene dall’anima di milioni di persone che professano un sentimento vero di libertà e di democrazia.

L’antitesi che traspare da tale contrapposizione ci indice ad esprimere un profondo disprezzo per gli ideali condivisi da Napolitano con gli assassini partigiani, uniti da affinità ideologiche che non si possono cancellare.

Il nostro profondo affetto va invece ai Carabinieri e alle vittime del comunismo, di cui gli eroi di Malga Bala nel sono un esempio.

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Dissenso

domenica 4 ottobre 2020

YURI A. DMITRIEV e le fosse comuni di Sandarmoch

Yuri Alexeyevich Dmitriev, nacque nel 1956 a Petrozavodsk, una città della Russia nord occidentale capitale della Repubblica di Carelia.

E’ uno storico russo, dissidente e storico della memoria dei gulag, il quale verso la fine degli anni Novanta scoprì le fosse comuni staliniane di Sandarmokh (una zona boschiva vicino a Medvezhyegorsk, capoluogo della Carelia), e di Krasnyj Bor (una cittadina nei pressi di San Pietroburgo), entrambe nella Russia nord occidentale.

Alla nascita venne affidato ad un orfanotrofio, poi all’età di un anno fu adottato da una coppia senza figli che lo allevò crescendolo.

A. Dmitriev

Il nonno materno fu deportato come kulaki (contadino considerato ricco) e mandato a lavorare alla costruzione del Canale del Mar Bianco, mentre il nonno paterno, contabile in una fattoria collettiva, venne arrestato nel 1938 e deportato in un gulag staliniano fino alla sua morte.

Il padre adottivo di Yuri era un ufficiale dell’esercito che venne poi dislocato nella Germania Est, e si trasferì quindi a Dresda con tutta la famiglia.

Yuri dal 1988 al 1991 fece parte del Fronte Popolare della Carelia, una branca dell’armata rossa e divenne assistente del deputato del Popolo dell’Urss Mikhail Zenko, nel distretto di Besovets in Carelia.

Oggi Yuri è un membro della sezione russa dell’Associazione Memorial Internazionale che lotta contro il totalitarismo comunista e si batte per la difesa dei diritti umani e il rispetto dei diritti civili in Russia.

La sua attività è sempre stata focalizzata a stabilire la verità storica sui crimini di Stalin e rivolta ad individuare i luoghi di esecuzione delle vittime del Grande Terrore, rintracciando gli elenchi segreti che identificano l’identità di coloro che sono stati fucilati a centinaia di migliaia.

Il ricercatore, oggi vicino ai 67 anni di età, ha lavorato per oltre 20 anni alla guida della sezione di Memorial in Carelia, al fine di documentare le atrocità della repressione staliniana, cercando anche di dare un nome alle vittime.

Grazie al suo costante impegno i dati storici raccolti pongono la Carelia al primo posto come paese in cui la conoscenza del passato è maggiormente documentata sotto questo profilo rispetto alle altre Repubbliche della federazione russa.

Dmitriev nel 2007

Questa minuziosa opera di ricerca storica letteraria è apparsa però agli occhi di Putin, ex colonnello del KGB, erede del retaggio criminale del vecchio comunismo sovietico, come una sorta di nemico da combattere.

Infatti il 13 dicembre  2016 il regime neo comunista di Vladmir Putin ha azionato la "macchina del fango" sempre attiva contro gli oppositori politici, e si è inventato una infamante calunnia nei suoi riguardi per poterlo incarcerare e bloccare così la sua raccolta di dati storici sui crimini commessi da Stalin e dal suo apparato delinquenziale.

Yuri venne accusato di aver realizzato immagini pornografiche fotografando la figlia adottiva Natasha, ma il mondo intellettuale, consapevole del fatto che le accuse fossero infondate, si schierò subito schierato in sua difesa, catalizzando l’attenzione della comunità internazionale sul processo a porte chiuse intentato allo scrittore.

Una successiva perizia tecnica stabilì che non c’era alcun elemento di reato, poiché le fotografie erano state scattate per monitorare il miglioramento della salute della figlia, la quale proveniva da un orfanotrofio e appariva molto trascurata, anoressica e denutrita.

Le foto avevano il solo scopo di consentire l’analisi del dietologo, in modo che stabilisse la terapia, e ciò venne avallato da una sentenza del dicembre del 2017 secondo cui il materiale fotografico ritrovato nel computer di Dmitriev non aveva effettivamente alcun contenuto pornografico.

I sostenitori di Yuri raccolsero oltre 30 mila firme chiedendone la scarcerazione, mentre il regime lo sottopose a perizia psichiatrica liberandolo solamente il 27 gennaio 2018 con l’imposizione di non lasciare Petrozavodsk.



Dopo un mese Yuri dovette presenziare ad una ulteriore udienza in Tribunale, a cui fece seguito nel mese di aprile la sentenza di assoluzione dal reato per il quale era stata chiesta dall’accusa una condanna a nove anni di carcere.

La Corte decise però di condannare Yuri per il possesso di un’arma da fuoco, ordinando la sua carcerazione per la durata di un anno seguita da altri tre mesi di obbligo di firma presso l’istituto carcerario.

Subito dopo la prima assoluzione, nel mese di aprile 2018, il Procuratore della città di Petrozavodsk, Yelena Askerova, presentò ricorso alla Corte contro la sentenza, ottenendo così un nuovo processo.

Yuri venne nuovamente  arrestato e contro di lui fu aggiunta una accusa di violenza sessuale nei riguardi della figlie, a causa della quale fu sottoposto ad una ulteriore visita psichiatrica.


Tutto ciò portò il 22 luglio 2020 alla condanna dello scrittore, ponendo fine al suo lavoro di ricerca che avrebbe consentito di completare il “Libro della Memoria” nel quale compaiono i nomi e le vicende di 64 mila “coloni speciali” deportati da Stalin negli anni ’30, da cui discende il 30 % degli attuali abitanti della Carelia.

Nel 1997-1998 scoprì  due importanti fosse comuni : la prima a Krasny Bor, vicino a Petrozavodsk e la seconda a Sandarmokh, un imponente campo di sterminio contenente le salme delle vittime uccise da Stalin.

Nell’area forestale di Sandarmokh furono ritrovate 236 fosse comuni in cui vennero sepolte 9.000 persone di oltre 58 nazionalità diverse nel periodo compreso fra il 1937 e il 1938.

Il lavoro investigativo di Yuri, svolto insieme al Co-presidente del Centro di ricerca Memorial di San Pietroburgo, Venyamin Ioffe, permise di  identificare, studiando i documenti di archivio del FSB di Arkhangelsk, il luogo di sepoltura di coloro che erano stati condannati a morte e uccisi nel gulag delle Solovki.

Dal 1998 in questo orribile e immenso campo di sterminio, in cui riposano finalmente in pace i prigionieri di Solovki e di altre 8.000 vittime del comunismo, sono stati eretti trecento monumenti a scopo commemorativo e si tiene una Giornata internazionale della memoria ogni 5 agosto. 

Il lavoro di Yuri, di Venyamin Ioffe e di Memorial Society ha permesso di dare un nome ad oltre cinquemila delle vittime sepolte a Sandarmokh, in cui emergono le identità di contadini, pescatori e cacciatori, scrittori e poeti, medici, insegnanti e ingegneri, e sacerdoti di tutte le confessioni.



Le vittime ucraine rappresentano una percentuale consistente nel numero globale delle identità scoperte nelle fosse comuni di Sandarmokh, seguite da quelle finlandesi, careliane, e dai tedeschi del Volga.

Riporto di seguito i nominativi di alcune delle vittime cui Yuri Dmitriev ha ridato le rispettive identità :

Principe Yasse Andronikov, ufficiale dell’esercito zarista, attore e regista teatrale. Venne fucilato il 27 ottobre 1937 all’età di 44 anni.

Fyodor Bagrov, Capo di una Fattoria collettiva della carelia. Fucilato il 22 aprile 1938 all’età di 42 anni.

Nikolai Durnovo, linguista russo. Fucilato il 27 ottobre 1937, all’età di 60 anni.

Hryhorii Epik, scrittore ucraino. Fucilato il 3 novembre 1937, all’età di 36 anni.

Vasily Helmersen, bibliotecario e artista russo. Fucilato il 9 dicembre 1937, all’età di 64 anni.

Nikolay Hrisanfov, scrittore careliano. Fucilato l’9 gennaio 1938 all’età di 39 anni.

Camilla Krushelnitskaya, organizzatrice di un gruppo cattolico clandestino a Mosca. Fucilata il 27 ottobre 1937, all’età di 45 anni.

Mykola Kulish, scrittrice, educatrice, giornalista e drammaturga ucraina. Fucilata il 3 novembre 1937 all’età di 40 anni.

L’esame necroscopico effettuato sui teschi delle vittime di Sandarmokh ha rivelato che le vittime sono state uccise con un colpo di pistola alla nuca dai sicari di Stalin che vestivano la divisa della NKVD, i quali eseguivano gli ordini della troika comunista.

Yuri è riuscito a identificare sia i nomi dei componenti delle troike assassine che si macchiarono di questi orribili delitti contro l’umanità che di quelli dei capi squadra che impartivano gli ordini nelle esecuzioni.

Eccone alcuni :

Matveev, era un boia esperto della NKVD e organizzava i trasporti dalle località delle Solovki al luogo delle esecuzioni.

I suoi successori furono : IA Bondarenko e il suo vice AF Shondysh che vennero anch’essi fucilati nel 1939.

In gioventù Yuri iniziò le sue ricerche in collaborazione con Ivan Chukhin, a quel tempo a capo dell’Associazione Memorial della Carelia, il cui padre era stato una delle vittime della repressione staliniana, poi alla sua morte nel 1997 proseguì da solo il lavoro che avevano iniziato insieme.

Il giornalista Alexander Burtin ha descritto la vita di Yuri come intensamente dedicata ad una minuziosa ricerca negli archivi durante i mesi invernali, a cui seguiva nei mesi estivi una attività sul campo, setacciando le zone boschive intorno a città e paesi alla ricerca di possibili fosse comuni.

Dmitriev è stato nominato Segretario della Commissione di Petrozavodsk per la tutela delle vittime riabilitate della repressione politica.

Dal 1997 è a capo dell’Accademia per la difesa dei diritti socio-legali, una ONG che si batte per la difesa dei diritti umani.


Foresta di Sandarmokh

Come Capo dell’Accademia Yuri nel 2002 scrisse all’allora Presidente della Repubblica careliana, Sergei Katanandov, opponendosi al progetto di erigere una statua a Yury Andropov, che era stato Presidente del KGB dal 1967 al 1982  guidando il Komsomol in Carelia dal 1940 al 1944.

Katanandov non prese nemmeno in considerazione la lettera di Dmitriev, e su tale atteggiamento il ricercatore e storico careliano affermò :

Non conosciamo il passato e non lo vogliamo sapere”.

Nel 2005 Dmitriev è stato insignito del premio “Golden Pen of Russia” per le sue pubblicazioni.

Nel 2015 ha ricevuto la Croce d’Oro al merito dalla Polonia per il suo lavoro di ricerca e di identificazione delle vittime di Solovki a Sandarmokh, mentre l’anno successivo il Capo della Carelia, Alexander Hudilainen gli ha consegnato il Diploma d’Onore della Repubblica di Carelia.

Mercoledì 22 luglio 2020 Yury Dmitriev, all’età di 64 anni, è stato condannato dal regime dittatoriale di Putin a tre anni e mezzo di prigione da scontare in una colonia penale, accusato di violenza sessuale sulla figlia adottiva.

Scontando il periodo di detenzione a cui lo storico è già stato sottoposto nel recente passato, Dmitriev avrebbe potuto finalmente riacquistare la libertà, ma la Corte Suprema della Carelia ha accolto il ricorso del procuratore, il quale ha aumentato la pena a 13 anni da scontare in una colonia penale.

La condanna equivale ad una sentenza di morte, in quanto Dmitriev è già fortemente debilitato dall’isolamento forzato in cui è stato costretto dai sadici carcerieri di Putin, e non potrà reggere ad altri 10 anni di carcere “a regime severo”, configurando il provvedimento come vero e proprio “omicidio su commissione” in cui lo Zar del Cremlino appare mandante e protagonista.

Nel 2021 il Tribunale municipale di Petrozavodsk ha aumentato la pena a 15 anni, e per ribadire che tale sentenza era definitva la Corte Suprema Russa ha rifiutato di prendere in considerazione la richiesta di revisione del processo avanzata dai suoi avvocati.

Paradossalmente, e in barba a qualunque difesa dei diritti umani, è accaduto quindi che Dmitriev, dopo essere stato dichiarato per due volte innocente in relazione ai principali capi di accusa e dopo che la sentenza è stata per due volte annullata, è stato condannato a 15 anni di reclusione.

Va detto che la sentenza è stata emessa dalla giudice Ekaterina Chomjakova, in evidente stato di compiacenza con i desideri del dittatore russo, tanto che dopo il verdetto è stata nominata, proprio per decreto diretto di Putin, Giudice della Corte Suprema della Repubblica di Carelia.

Memorial Italia, presieduta da Andrea Gullotta, ha dichiarato che l’intera vicenda giudiziaria è costellata di momenti poco chiari e che le decisioni sono state prese in aperta violazone dei diritti  fondamentali.

La risposta del regime che fa capo al Presidente Vladmir Putin, oramai conclamatosi come il fetido erede di un becero comunismo staliniano, si è palesata il 28 dicembre 2021 con un ordine di chiusura dell’Associazione “Memorial International” seguito il giorno successivo da quello che ha posto fine all’attività del “Centro Memorial” per i diritti umani.

Memorial venne fondata dall’accademico e scienziato dissidente Andrej  Dmitrievic Sacharov, premio Nobel per la Pace, ed è legalmente riconosciuta come associazione «internazionale» in base ad atti giuridici sottoscritti dalla Russia che hanno valore prevalente rispetto a quelli federali.

Nonostante ciò è accusata da Putin, fuori controllo e in pieno delirio di onnipotenza, di essere un agente straniero, in pratica una spia al soldo del nemico, e viene quindi trattata come colpevole di alto tradimento in un paese in guerra.

Secondo l’apparato dittatoriale del regime russo, Memorial avrebbe creato una falsa immagine dell’URSS, dipingendola come uno Stato terrorista e infangando la memoria della Grande guerra patriottica.

La documentazione di quel terrore staliniano che ogni cittadino russo ha sperimentato sulla propria pelle per decenni, sarebbe invisa all’ex colonnello del KGB, le cui politiche prevedono di assolvere invece la Russia sovietica in funzione del ruolo svolto contro il nazismo.

Un nazismo di cui l’Unione Sovietica era alleata per spartirsi i territori europei, ma che Putin si guarda bene dal ricordare.

Le farneticazioni attraverso cui la Procura generale russa ha condannato Memorial per compiacere Putin, indicano come motivazione la violazione della legge sugli “agenti stranieri” e l’aver giustificato il terrorismo e l’estremismo.

La volontà del Cremlino, è palesemente rivolta all’annichilimento della dissidenza, con qualunque mezzo, così come comprova il modus operandi del regime post sovietico guidato dall’ex colonnello del KGB.

La metodologia con cui Putin distrugge i suoi avversari è tristemente nota e passa anche attraverso la costruzione di false accuse infamanti, con conseguente gogna mediatica, tese alla delegittimazione e a provocare il biasimo popolare.

Fortunatamente lo sciacallaggio esercitato da Putin su chiunque non osservi la rigida ortodossia di un comunismo sopito ma mai scomparso dalla Russia, è ben noto a livello internazionale, così come i suoi metodi brutali e l’uso dell’assassinio mediante sicari prezzolati.

Dmitriev rimane colui che ha restituito a migliaia di persone senza nome, assassinate dal comunismo staliniano, quelle identità che erano destinate ad un colpevole oblio, sepolte non solo fisicamente ma anche nel ricordo di ciò che rappresentarono per l’intera umanità, una massa sofferente in balìa del mostro vorace che si chiama comunismo.

Dmitriev è stato prelevato dalla cella di isolamento del carcere di Petrozavodsk in cui era stato incarcerato e in cui aveva trascorso  quasi ininterrottamente gli ultimi cinque anni, prima della sentenza finale, e trasferito nella Colonia Penale n° 1 della località di Nadvoicy in Carelia.

Questo luogo è tristemente famoso perché nei primi anni 30 del secolo scorso ospitava la Direzione del Belbaltlag e cioè il sistema concentrazionario che si occupava, attraverso il lavoro coatto dei detenuti, della costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico.

Dopo una settimana di permanenza a Nadvoicy, Dmitriev è stato di nuovo traferito in una colonia penale della Mordovia, il luogo finale previsto dal regime per la sua deportazione, e cioè la Stazione di Yavas.

Le colonie penali della Repubblica di Mordovia, situata nella zona orientale della Russia europea, costituiscono la tragica eredità del sistema repressivo sovietico, in cui vennero usate le strutture carcerarie nate al tempo dello Zar per essere poi fagocitate e sviluppate seguendo il modello del Gulag sovietico, in cui i detenuti erano obbligati a lavorare.

Queste colonie sono state per decenni, e lo sono ancora, il luogo in cui venivano reclusi tutti coloro che manifestavano liberamente la loro contrarietà al regime comunista, come  testimoniato dalla vasta letteratura in materia.

Le colonie penali della Mordovia rappresentano uno dei complessi penali più grandi, la cui storia risale ai primi anni del Gulag, e da cui passarono molti dissidenti sovietici come ad esempio :

Aleksandr Ginzburg, Anatolij Marčenko, Irina Ratušinskaja, Julij Daniel’, Jurij Galanskov, Kronid Ljubarskij, Tat’jana Velikanova, e altri.

Anche Putin, che è solito fare uso della repressione per zittire gli avversari politici, ha usato le colonie penali della Mordovia per deportare molti di loro, tra cui ad esempio Nadia Tolokonnikova, la cantante della band russa “Pussy Riot” che nel 2012 dopo essere stata detenuta in Mordovia è stata poi deportata nella città di Nizhny Ihash, nella Regione siberiana di Krasnoyarsk.

L’ammissione di responsabilità di colui che ha fatto parte di questo apparato criminale, e cioè Vladimir Putin, ex colonnello del KGB, non sono non è contemplata ma anzi costituisce motivo di imbarazzo per chi sulla scena internazionale vorrebbe porsi come idolo di riferimento.

Sono state molte le personalità della cultura e i testimoni storici dell’orrore comunista che sono intervenuti a difesa di Dmitriev, come ad esempio Natal’ja Solzenicyna, la vedova del grande scrittore dissidente Aleksandr Solzenicyn, che ha messo in guardia contro l’insorgenza di una nuova pericolos dittatura.

E’ opinione di molti, confermata dalla realtà dei fatti e dalle migliaia di omicidi di dissidenti, che la Russia stia precipitando in caduta libera verso un nuovo totalitarismo, nel totale disprezzo della Democrazia, della libertà e dei diritti umani.

Il 29 ottobre 2021, a Oslo, Jurij Mnitriev ha ricevuto dal Comitato norvegese di Helsinki il premio Sacharov per la libertà, in riconoscimento del suo impegno per i diritti umani, ma non potendo presenziare alla cerimonia perché prigioniero del regime russo, ha inviato una lettera in cui ha dichiarato:


Signore e signori, amici e collaboratori!

Sono lieto di avere l’opportunità di rivolgermi a voi, persone con cui condivido valori e ideali, e che comprendono l’importanza del lavoro quotidiano di protezione dei diritti umani sanciti dagli accordi di Helsinki.
Ognuno di noi, nel proprio paese, sta difendendo questi diritti e queste libertà, in base alla propria interpretazione delle sfide dei nostri tempi.
Personalmente, questo compito è iniziato più di trent’anni fa, lavorando su un insolito intreccio di diversi diritti fondamentali:
Il diritto umano a difendere la propria reputazione;
Il diritto umano a un processo equo;
Il diritto umano a un luogo di sepoltura (a meno che non si venga sepolti in mare);
Il diritto umano alla memoria; Il diritto umano di ricevere e trasmettere informazioni.
In tutti questi anni ho, al meglio delle mie possibilità, restituito nomi e una reputazione alle molte vittime delle ingiustizie  messe in atto dai comunisti nel mio paese nel secolo scorso.
Ho cercato e trovato le tombe delle vittime delle repressioni politiche, e le ho trasformate in luoghi di memoria.
Ho restituito a persone che vivono oggi in diversi paesi i nomi e i ricordi dei loro parenti e amici scomparsi nell’oscurità dell’era comunista, raccontando loro il loro destino, la loro tragica morte, e indicandone il luogo della loro sepoltura. 
Ho scritto libri per mantenere vivo questo ricordo.
Ci sembrava che questi tempi bui appartenessero al passato. 
Tuttavia, hanno ragione coloro i quali sostengono che la Storia si sviluppa come una spirale.
Ancora una volta il meccanismo repressivo è all’opera in Russia.
Ancora una volta le persone in disaccordo con l’attuale corso politico dei governanti vengono arrestate e sbattute in prigione. 
Ancora una volta, come pretesto per gli arresti sono usate motivazioni inventate da autorità pavide.
Ancora una volta i giornali e le riviste, le redazioni televisive e internet vengono chiusi nel mio paese per volontà delle autorità. 
Un numero sempre maggiore di persone sono costrette a lasciare il paese, temendo per la loro vita, per la vita dei loro figli, parenti e persone care.
Indipendentemente da quanto sia pesante la situazione del rispetto dei diritti umani nel mio paese, siamo sicuri che i nostri sforzi non siano vani. 
Sappiamo che l’intera comunità internazionale sta guardando con preoccupazione i cambiamenti che avvengono in Russia. 
L’usurpazione del potere assoluto da parte di una sola persona, un parlamento fantoccio, una procura e un tribunale addomesticati:
questo non è un luogo dove i diritti umani possano essere preminenti.
Ci sono persone che lottano per questi diritti.
Qualche settimana fa, il mio compatriota Dmitrij Muratov ha ricevuto il premio Nobel per la pace, il più alto riconoscimento di gratitudine da parte dell’umanità.
E ora di nuovo risuona un nome russo:
Jurij Dmitriev.
Questo significa che non tutto in Russia è così senza speranza e da guardare con pessimismo. 
Io ci credo:
la Russia sarà uno stato libero e democratico.
Uno Stato in cui i diritti umani non avranno bisogno di essere difesi.
Uno Stato in cui i diritti umani saranno rispettati incondizionatamente.
Grazie per questo alto riconoscimento alla mia attività.
Per quanto possibile nella mia situazione attuale, continuerò a lavorare per la restituzione dei nomi, per la ricostruzione della nostra tragica storia, per educare.

Jurij Dmitriev
17 ottobre 2021
Centro di detenzione numero 1, Petrozavodsk.

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Putin non riuscirà comunque mai nascondere la verità sulle stragi comuniste del periodo staliniano, che nel caso di Sandarmokh si palesa con evidenza in ben 236 fosse comuni.

Sicuramente un’autocelebrazione della potenza sovietica senza macchia e senza paura potrebbe servire a rinforzare l’attuale linea politica di Putin, ma l’amnesia di cui il dittatore intende farsi interprete è solo a livello istituzionale, considerando che i sondaggi sociologici hanno dimostrato che i russi, ancora oggi, non hanno dimenticato il terrore sovietico. 

Lo sterminio di un gran numero di persone innocenti che sono sepolte a Sandarmokh e a Krasnyj Bor risale al 1937/1938 e di queste, almeno un migliaio, su un totale di oltre 9.500, provenivano dalla prigione speciale delle Isole Soloveckie (SLON), un famigerato gulag del mar Bianco.

Per molto tempo si pensò che le barche adibite al trasporto dei prigionieri fossero state fatte affondare deliberatamente per affogare i prigionieri a bordo, come era consuetudine della NKVD, la polizia segreta staliniana, ma evidentemente molti di loro furono invece fucilati e sepolti a Sandarmokh.

Le ricerche di Dmitriev hanno permesso di scoprire che il 27 ottobre 1937 ben 1.116 prigionieri furono appunto caricati su tre chiatte e trasportati dalle isole alla terraferma.

Tra i documenti trovati negli archivi dell’FSB, il Servizio di Sicurezza Federale di Arcangelo (sul Mar Bianco) vi erano gli elenchi di coloro che dovevano essere fucilati.

Incrociando i dati e collaborando con Irina Flige, Capo del Centro di Informazione e di educazione Memorial di San Pietroburgo, Dmitriev insieme anche a Veniamin Iofe, uno dei fondatori dell’Associazione, trovarono i luoghi di sepoltura.

Krasnyj Bor

Krasny Bor, come già accennato, è una zona boscosa, non lontano da Petrozavodsk , la capitale della Carelia, nella Russia nordoccidentale. 

Nel 1997 grazie a Jurij Dmitriev è stato identificato un luogo di sterminip e di sepoltura per le esecuzioni della NKVD durante le purghe staliniane.

Il luogo di sepoltura copre un'area di circa 350 metri per 150 e secondo i rapporti di esecuzione trovati negli archivi dell'ex KGB per la Carelia, vi sono sepolte 1.193 persone.

Di queste, 580 sono finlandesi, 432 careliani, 136 russi, e 45 di altre nazionalità.

Secondo i documenti di archivio le esecuzioni ebbero luogo dal 9 agosto al 15 settembre 1937 e dal 26 settembre al 2 ottobre 1938.Jurij Dmitriev affermò in una intervista del maggio 2015 che attraverso il lavoro negli archivi l'identità di tutti coloro che vennero uccisi a Krasny Bor è stata stabilita con un alto livello di certezza e che per fare un confronto, venne identificata circa la metà delle vittime di Sandarmokh.

Nel 1998 è stao inaugurato il cimitero commemorativo, fratello del complesso di Sandarmokh, e il giorno 30 ottobre di ogni anno viene celebrata una Giornata della Memoria.

In occasione della ricorrenza del 2017, la figlia di Dmitriev, Katerina, in assenza del padre prigioniero di Putin, ha partecipato alla cerimonia leggendo ad alta voce i nomi delle centinaia di vittime dagli elenchi compilati dal genitore.

Sandarmokh

Sandarmokh è, come già accennato, un massiccio forestale situato a circa 12 chilomteri da Medvezhyegorsk, nella Repubblica russa di Carelia.

In questo luogo vennero giustiziate migliaia di vittime del Grande Terrore staliniano, appartenenti a 58 diverse nazionalità.

L’eccidio si consumò mediante fucilazioni e sepolture in 236 fosse comuni nell’arco di 14 mesi nel 1937 e nel 1938.

Spesso le modalità dell’esecuzione prevedevano che le vittime venissero disposte allineate sull’orlo dello scavo, precedentemente approntato, così che dopo un colpo di pistola sparato a bruciapelo alla nuca, cadessero morenti all’interno.

Dal 1997 nel sito delle fosse comuni sono presenti oltre 300 lapidi, ognuna delle quali reca il nome della vittima, oppure rappresenta un gruppo nazionale o religioso.

Le migliaia di vittime giustiziate sono state suddivise in tre grandi gruppi per meglio capire le dinamiche repressive del terrore staliniano.

Un primo gruppo di 2.344 vittime era costituito da liberi cittadini della Carelia, mentre un secondo raggruppamento si componeva di 1.612 contadini che erano stati esiliati dalle loro terre  in seguito alla collettivizzazione forzata dell’agricoltura.

Un ultimo gruppo di 1.111 persone proveniva dai gulag delle isole Soloveckij.

Tutti costoro costituivano circa la metà del numero di vittime delle grandi purghe in Carelia.

Dmitriev ha affermato che “accanto a contadini, pescatori e cacciatori dei villaggi vicini, c’erano scrittori, poeti, scienziati, studiosi, capi militari, medici, insegnanti, ingegneri, ecclesiastici e statisti, che qui trovarono la loro ultima dimora”.

A Sandarmokh vennero uccisi anche 289 scrittori, artisti e poeti di lingua ucraina che tra il 1920 e il 1930, dopo che Stalin iniziò la politica di russificazione dei territori ucraini, erano stati interpreti del processo di rinascita dell’attività letteraria e culturale nel loro Paese, costituendo dozzine di gruppi intellettuali che cambiarono il volto della letteratura Ucraina.

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Il servilismo del potere giudiziario verso Putin ricorda molto da vicino quello delle toghe rosse italiane nei confronti ossequiosi con il PD e l’apparato criminale che lo compone.

Solamente la prostituzione ideologica e lo squallore morale di individui corrotti nell’anima possono arrivare a condannare un uomo innocente.

Tutto ciò rimarrà nel ricordo collettivo come una triste pagina di Storia in cui il sadismo espresso dagli eredi del comunismo ha prevalso sulla Democrazia e sui valori di libertà e di civiltà che dovrebbero essere il punto di riferimento per l’incedere della nostra società.

Di fronte a tale arroganza, siamo tutti Yuri Dmitriev …

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Dissenso

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