lunedì 5 settembre 2022

Luigi Borghi: criminale partigiano comunista assassino

Nato a Castelmaggiore in provincia di Bologna nel 1914, Luigi Borghi era un operaio della Manifattura Tabacchi, che prestò servizio militare presso il Regio esercito, passando poi dopo l’Armistizio del 1943 nei ranghi della Guardia nazionale repubblicana, il corpo di polizia interna e militare della Repubblica sociale di Mussolini.



La sua istruzione si fermò alla quinta elementare ed era caratterizzato dai modi rozzi e nevrotici, così come da due baffetti appena accennati e da capelli neri e crespi, con una inconfondibile attaccatura alta.

Fece parte anche del Feldkommandantur di Bologna, il comando militare tedesco da cui dipendevano le SS italiane.

Verso la fine dell’estate del 1944 fu catturato dai gappisti partigiani del comandante Franco Franchini, alias “Romagna”, un carpentiere imolese messo a capo del gruppo locale per le sue attitudini militari.

Franchini fu poi trasferito nel distaccamento di Castel Maggiore, a comandare la 7° Brigata GAP comunista Gianni Garibaldi, a cui fu dato il nome di Brigata Paolo.

Borghi stava per essere fucilato, ma si mise a singhiozzare, umiliandosi e implorando pietà, chiedendo a gran voce di essere integrato nelle file partigiane.

Sapendo che Borghi aveva un fratello comunista e un altro socialista, i partigiani decisero di graziarlo, provocando la sua immediata trasformazione da camerata a compagno.

Da quel momento Borghi iniziò la sua carriera di partigiano, palesandosi però come individuo indiscplinato e inaffidabile.

Durante il suo primo scontro a fuoco, a Sabbiuno di Castelmaggiore, nell’ottobre 1944, morì il comandante “Romagna”, colpito alla schiena da una fucilata, e ci sono forti sospetti che a colpirlo sia stato proprio Borghi.

Il nome di battaglia di Borghi era “Ultimo”  a causa del fatto che fu l’ultimo in ordine cronologico ad aggregarsi alla 7° Gap di Castelmaggiore, ma i suoi complici comunisti preferivano chiamarlo “Gino”, oppure “Maurizio” o ancora “Giordano”.

Borghi aveva un motto che ripeteva a tutti continuamente :

Quand ch’us va in tal cà b’sogna mazè tot, nec e gatt” (Quando si entra in una casa bisogna ammazzare tutti, anche il gatto!".

S. Ballardini
Con questa filosofia di vita, improntata all’omicidio e al disprezzo per la vita umana, il feroce partigiano comunista fu responsabile, insieme al “compagno” Sauro Ballardini, detto “Topo”, di una lunga scia di sangue.

A proposito di quest’ultimo, si veda un mio post al link : Ballardini

Oltre alla coppia Borghi-Ballardini, la Gap di Castelmaggiore era costituita anche da due donne, entrambe contadine, Germana Bordoni di anni 20 e Carolina Malaguti, alias “Prima” di anni 21, non meno feroci della coppia maschile.

Fra i tanti omicidi commessi dal partigiano comunista figura quello di Giuseppe Forti, proprietario dell’azienda agricola “Ringhiera” di Bentivoglio, e di suo figlio Romeo.

Infatti Borghi e la sua accolita delinquenziale si recarono a Bologna, in via Santo Stefano 48, dove abitava la famiglia Forti e dopo aver individuato Giuseppe, di 72 anni, lo freddarono nell’atrio del palazzo con tre colpi di pistola, poi prelevarono Romeo e lo portarono via.

Il mattino seguente il suo cadavere fu ritrovato steso a terra crivellato di colpi in via San Petronio Vecchio, a poca distanza da casa sua.

Nel dopoguerra i comunisti e il loro partigianato assassino avevano come scopo quello di ripristinare lo stesso clima di terrore che avevano imposto vent’anni prima, nel periodo cosiddetto del biennio rosso, durante il quale misero a ferro e  fuoco l’intera penisola.

Quel fascismo che in precedenza li aveva fermati, e che aveva ripristinato la Pace e il benessere, dopo la guerra non c’era più, e riprese quindi forza l’idea espressa dalle bande comuniste di trasformare l’Italia in un satellite sovietico, con tanto di guerra alla borghesia e di collettivizzazione delle terre agricole, proprio come nella Russia di Stalin.

Borghi impazzava per i territori della bassa bolognese in sella ad una motocicletta rossa, con la mitraglietta a tracolla, e lasciava dietro di sé una scia di morti ammazzati.


Borghi è l’autore materiale anche dell’omicidio di Leandro Arpinati, ex podestà di Bologna che durante il suo mandato di Sindaco realizzò diverse opere pubbliche, come lo Stadio Littoriale, oggi Stadio Dallara, a quel tempo uno dei più grandi in Europa, la Clinica psichiatrica, l’Ospedale Pizzardi, il raddoppio della linea del tram, l’edilizia popolare, la funivia di San Luca, ed altre opere.

Arpinati era una delle voci del dissenso contro l’operato dei gerarchi fascisti, contro i quali ebbe a scontrarsi al punto che Mussolini gli impose il “confino” a Lipari, seguito poi dal “domicilio coatto” nella sua casa di Malacappa, nella Bassa bolognese.

Da quel momento Arpinati operò per la protezione degli antifascisti, pur rimanendo anticomunista, al punto che si incontrò con il comandante Franchini alias “Romagna” (che poi sarà ucciso da “Ultimo”), il quale gli promise che nessuno lo avrebbe toccato, proprio per ringraziarlo del suo impegno.

Quando il motofurgone che trasportava Borghi e altri partigiani oltrepassò il cancello della proprietà di Arpinati, verso mezzogiorno del 22 aprile 1945, si trovò di fronte proprio a lui, che stava passeggiando insieme a Torquato Nanni e a Mario Lolli, il segretario dell’ex Podestà.

Una delle due partigiane che componevano il drappello criminale si mise istericamente a strillare : “Dai dai sparagli sparagli!

Torquato Nanni si frappose fra Borghi e l’amico, nel tentativo di calmare gli animi, ma fu steso da un violento colpo ala nuca inferto con il calcio del fucile da uno dei partigiani.

A quel punto Borghi, “Ultimo”, sparò con il suo sten (mitra a canna corta di fabbricazione inglese) al volto di Arpinati, devastandogli il viso e uccidendolo all’istante.

Le due pasionarie partigiane intervennero nuovamente, mettendo a nudo la loro immensa carica di odio, tipica delle bande comuniste, urlando :

Dai dai ammazzate anche gli altri!

Una di loro sparò un colpo alla nuca di Nanni, finendolo, mentre glia ltri partigiani infierirono sul cadavere di Arpinati bersagliandolo di colpi.

Il segretario Mario Lolli tentò la fuga correndo verso la casa, ma fu raggiunto da diversi proiettili alla schiena, e ancora una volta, una delle due partigiane con il fazzoletto rosso al collo si mise a urlare:

Ammazzalo, finiscilo!

Quando fu di fronte a Giancarla, la figlia 21enne di Arpinati, “Ultimo” le lanciò fra le gambe una bomba a mano che fortunatamente non esplose, poi iniziò insieme al gruppo a depredare i cadaveri, portando via orologi, portafogli e altri oggetti.

A proposito di Arpinati, si veda un mio post al link : Arpinati

Lo stesso giorno, il manipolo di criminali assassini della Brigata comunista partigiana Paolo si recò a Bentivoglio, dove uccise barbaramente  Serafino Zoni, di 48 anni, milite della Guardia repubblicana, e i fratelli Luigi e Rino Ramponi, rispettivamente di 41 e 39 anni,gettando poi i cadaveri in una buca anticarro.

Dopo la strage i partigiani si recarono nell’abitazione di Zoni minacciando madre e figlio perchè consegnassero loro il denaro e i libretti di risparmio.

Nel corso delle indagini su queste uccisioni sia la vedova di Zoni che il figlio testimoniarono ai Carabinieri che due dei sequestratori del familiare ucciso erano Luigi Borghi e Carolina Malaguti.


In occasione del successivo processo istituito nel 1952, un altro testimone, tale Arturo C., identificò ”Ultimo” e Ballardini, il suo degno compare, come due dei tre partigiani che in località Paleotto a Funo di Argelato scortavano i tre prigionieri verso il luogo dell’esecuzione.

Nonostante i crimini commessi, la sociopatica comunista e criminale Carolina Malaguti fu poi inserita nella vulgata resistenziale del dopoguerra, zeppa di falsità e di inganni ad opera dell’appparato disinformatore delle sinistre, come eroico esempio di partigiana, e decorata con medaglia di bronzo al Valor Militare.

Due giorni dopo l’eccidio di Malacappa e cioè il 24 aprile 1945, Luigi Borghi si recò, alla guida del famigerato autocarro, in Via Fondazza 53 a Bologna, dove abitava Luigi Trevisi, di 57 anni, capo tecnico della Manifattura Tabacchi.

Con lui aveva uno “screzio” da regolare in quanto il tecnico aveva questionato con la moglie del partigiano, Iside Bussolari, 31enne operaia della Manifattura, e non le aveva concesso alcuni permessi.

Borghi e gli altri partigiani dopo aver saccheggiato l’appartamento, ripetendo lo squallido itinerario dello sciacallaggio comunista, sequestrarono Trevisi e lo portarono in Piazza Maggiore esibendolo come trofeo fino alla sera, e trattenendolo poi a Castelmaggiore al loro rientro in sede.

Il gruppo si recò quindi a Trebbo di Reno, per prelevare il cantoniere comunale Armando Bonazzi, considerato da “Ultimo” una spia dei tedeschi, nonostante il fatto che costui non avesse nemmeno aderito al fascismo di Salò.

Sia Trevisi che Bonazzi vennero trucidati in località Noce, vicino al fiume Reno e i loro cadaveri crivellati di proiettili vennero scoperti il giorno successivo.

I Carabinieri durante le indagni stablirono che i delitti erano da ascrivere alla famigerata banda Borghi, autrice di rapine, estorsioni, razzie, saccheggi, e numerosi omicidi.

Affermarono inoltre che della banda facevano parte, oltre a Borghi detto “Ultimo”, anche Sauro Ballardini, e Carolina Malaguti.

A quest’ultima, nonostante la caratura criminale e il disprezzo per la vita umana, venne conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, e questo la dice lunga sulla affidabilità della vulgata resistenziale propagandata dal PCI nel dopoguerra.

Le ricostruzioni storiche vennero platealmente falsate e plasmate ad uso e consumo della sinistra, la quale cantando “bella ciao” ha costruito a tavolino eroi che non esistevano e nascosto criminali sanguinari colpevoli di aver compiuto stragi ed eccidi di persone innocenti, a guerra finita, spesso per rancori personali o semplicemente per predare i loro averi.

A guerra finita, lo psicopatico partigiano comunista uccise anche Carlo Savoia, un 19enne che era stato squadrista delle Brigate Nere, e Raffaele Calzoni, milite 35enne della Guardia nazionale repubblicana di Baricella, oltre a Loris Busi, fornaio.

Dopo averli trasportati con un camion in aperta campagna i partigiani li falciarono a colpi di mitra e abbandonarono i loro cadaveri in un campo.

Gli omicidi della Brigata Paolo si susseguirono quotidianamente dopo la fine della guerra, in un delirio di onnipotenza criminale in seguito al quale vennero uccisi i sette fratelli Govoni di Pieve di Cento e la moglie di Ido Cevolani, Govannina, massacrati senza pietà.


Insieme a loro i partigiani uccisero i prigionieri prelevati a San Giorgio di Piano:

Bonora Cesarino, il padre Alberto, il figlio Ivo, e Bonora Ugo, Bonvicini Alberto, Caliceti Giovanni, Malaguti Giacomo, Mattioli GuidoPancaldi Guidoe Testoni Vinicio.

I prigionieri vennero prima sottoposti ad un feroce pestaggio, con pugni, calci, bastonate, sevizie e torture, infine strangolati, poi dopo essere stati spogliati dei beni personali furono tutti gettati in una fossa anticarro.

In precedenza l’odio cieco e irrazionale delle bande comuniste partigiane compì un’altra strage, prelevando nella cittadina di Cento le seguenti persone:

Alborghetti Giuseppe, Bonazzi DinoCavallini EnricoCevolani Alfonso, Costa Sisto, la di lui moglie, Adele, e il loro figlio VincenzoMaccaferri VanesMelloni Ferdinando, Moroni Otello,  Tartati Guido, e Zaccarato Augusto.

Guido Cevolani, fratello di Alfonso riuscì a convincere i partigiani a liberare il congiunto, ma tutti gli altri vennero condannati a morte dopo un processo farsa da uno pseudo tribunale partigiano.

Le vittime, dopo essere state depredate dei loro averi, furono tutte strangolate.

Questi episodi criminali costituivano la quotidianità del dopoguerra emiliano, in un crescendo di odio con cui il PCI voleva traghettare l’Italia verso un oscuro destino trasformandola in un satellite sovietico.

L’8 febbraio 1953 i responsabili dei massacri, o perlomeno quelli che la Magistratura bolognese riuscì ad individuare, furono condannati all’ergastolo dai Giudici del Tribunale, ma non fecero nemmeno un giorno di galera, poiché il PCI li fece espatriare in Cecoslovacchia.

I nomi di questi assassini partigiani sono:

Luigi Borghi, alias "Ultimo", comandante del distretto di Castel Maggiore della VII brigata Gap Gianni Garibaldi;

Vittorio Caffeo, alias "Drago", partigiano nella II brigata Paolo;

Vitaliano Bertuzzi, alias "Zampo", partigiano prima nella IV brigata Venturoli Garibaldi, poi nella II brigata  Paolo, in cui era vice comandante di battaglione;

Adelmo Benini, alias "Gino", partigiano nella II brigata Paolo. 

Tra gli indiziati, veri e propri banditi scappati a gambe levate poco prima del processo, figuravano:

Accurso Carlo, Ballardini Sauro, Biondi Enzo, Crescimenti Lodovico, Dardi Arturo, Galuppi Pietro, Marzetti Alberto, Montanari Ivano, Pioppi Arrigo, Vignoli Bruno, Zanardi Remo, Ziosi Fedele.

"Ultimo", insieme a "Moretto" è stato anche l'esecutore materiale dell'omicidio di Laura Emiliani Costa, descritta dai partigiani della Paolo come ipocrita e pericolosa.

Insieme ai partigiani "Moretto", Dino Cipollani e Guido Belletti, dopo averla prelevata dalla sua villa, a Torre di Asìa, nel Comune di San Pietro in Casale, la portarono alla sede del Cln di Argelato.

In questa occasione Luigi Borghi le disse:

"Vè chi è sta faza da fascesta" (Guarda chi c'è qui quest faccia da fascsta".

Poi la caricarono su un auto, e da quel momento Laura Emiliani Costa scomparve nel nulla.

La disinformazione comunista, quella per intenderci che piace tanto all’ANPI, nel suo continuo manipolare i fatti storici, ha dipinto Luigi Borghi non come il sadico criminale che era, ma come eroico combattente e degno rappresentante della nuova gioventù italiana, come risulta dalle sue note, scritte e pubblicate per conto del Comune di Bologna, Dipartimento Cultura, Area Storia memoria, sul sito storiaememoriadibologna.it.

Non solo Borghi, un vero ratto di fogna comunista e partigiano, è stato eletto ad eroe, e proclamato indomito combattente, ma gli è stata anche conferita una Medaglia d’Argento al Valor Militare, confermando che l’apparato resistenziale comunista descritto dalle sinistre con grande enfasi, in realtà si componeva di criminali sanguinari che abusavano del loro potere per compiere omicidi e rapine, con la compiacenza del PCI di Longo e Togliatti.

Ancora oggi le sinistre celebrano il 25 aprile senza la minima vergogna per i numerosissimi crimini commessi dal PCI, loro antesignano, da cui hanno tratto linfa vitale per decenni, salvo poi metamorfizzarsi sotto mentite spoglie.

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Dissenso

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sabato 3 settembre 2022

Zoja Svetova, paladina dei diritti umani nella Russia di Putin

Zoja Svetova è nata a Mosca, in Russia, il 17 marzo 1959, da Zoja Krakhmalnikova e Felix Svetov.

Il nonno paterno, Grigorij Fridljand, famoso storico, venne fucilato da Stalin nel corso delle repressioni del 1937, mentre la nonna conobbe sia il carcere che il confino, così come i suoi genitori, finiti nel mirino dell’apparato comunista.

Nel 1956 il nonno venne riabilitato post mortem, e i suoi libri ripubblicati, ma qualche decennio dopo, nel 1982, fu arrestata anche la mamma di Zoja, anche lei giornalista, in seguito alla nuova legge sulla censura varata dal Cremlino che vietava di pubblicare libri all’estero.

A quel tempo Zoja aveva 23 anni ed era in casa con il figlio di 4 mesi quando il KGB bussò alla loro porta.

Gli agenti perquisirono tutta la casa, poi arrestarono la mamma e la portarono via, con l’accusa di “agitazione e propaganda antisovietiche, mirate al sovvertimento dell’assetto costituzionale sovietico”.

La sua colpa fu quella di aver compilato testi a carattere religioso in raccolte cristiane che batteva a macchina e che venivano successivamente diffuse come samizdat e pubblicate da “Posevil”, una casa editrice dell’emigrazione russa in Germania.

Fu condannata a un anno di carcere e sei anni di confino in Siberia e si ritrovò così, insieme al papà di Zoja, Feliks Svetov, il quale nel 1985 aveva avuto la stessa pena per aver firmato appelli in sostegno di Andrej Sacharov, entrambi nel villaggio siberiano di Ust-Koksa sui monti Altai, a seimila chilometri da Mosca.

Zoja potè rivedere i suoi genitori solamente nel 1987 quando Michail Gorbacev concesse l’amnistia a tutti i prigionieri politici.

Da allora Zoja Svevtova decise di diventare giornalista e difensore dei diritti umani.

Si è sposata con Viktor Dzyadko, con cui ha 4 figli, Anna, Philip, e Timofey, e Tikhon, il più piccolo, che divenne caporedattore di TV Rain, un canale di informazione il quale fu chiuso da Putin, e in seguito a ciò scelse di esiliarsi in Georgia o in Lettonia per sfuggire all’ondata di repressione.

Nel 1982 si è laureata presso l’Istituto Pedagogico Statale di Lingue Straniere “Maurice Thorez” di Mosca.




Dal 1991 al 1993 ha lavorato presso la rivista “Family and School”, sulle cui pagine ha pubblicato alcuni articoli che l’hanno messa nel mirino della FSB, la polizia segreta di Putin.

L’apparato poliziesco del regime russo, in occasione di un ciclo di indagini sull’oligarca Mikhil Khodorkovsky, ha perquisito la casa della giornalista sequestrandole sia l’Pad su cui lei annotava le sue ricerche di lavoro che altri dispositivi informatici, oltre al telefono  cellulare del marito.

Dal 1993 al 2001 ha lavorato come editorialista per il quotidiano “Russian Thought”.

E’ autrice del libro intitolato “Gli innocenti saranno colpevoli. Appunti di un’idealista”.

Ha scritto molti articoli, pubblicati su testate quali:

Kommersant, Russian Telegraph, Moscow News, Obshchaya Gazeta, Novaja Gazeta, Moskovskiye Novosti, Yezhenedelny Zhurnal, e su riviste come: Spark, Weekly magazine, e Itogi.

I suoi articoli sono stati tradotti e pubblicati nelle edizioni francesi di France Soir, Le quotidien (Lussemburgo), La Depeche du midi, e Quest-France.

Dal 1994 al 1999 è stata corrispondente dell’Ufficio moscovita di RFI (Radio France Internationale), l’emittente radiofonica Statale francese che, trasmettendo 24 ore al giorno in 12 lingue diverse, ha un seguito di 37 milioni di ascoltatori nel mondo.

Dal 1999 al 2001 è stata corrispondente dell’Ufficio moscovita del quotidiano di sinistra “Liberation”, fondato nel 1973 da Jean-Paul Sartre e Serge July.

Dal 2000 al 2002 ha lavorato in qualità di esperta e consulente presso la Fondazione Soros sui programmi relativi allo sviluppo del diritto, della magistratura e del tema dei diritti umani in Russia.

Dal 2001 al 2003 ha lavorato presso il quotidiano moscovita “Novye Izvestia”, critico nei confronti del Governo di Vladimir Putin e sulla sua influenza negativa per le libertà democratiche dei cittadini russi.

Dal 2002 al 2004, Zoja Svetova è stata rappresentante dell'organizzazione internazionale “Reporters sans frontières” a Mosca, sostenendo i giornalisti incarcerati in relazione alle loro attività professionali.

Dal 2003 al 2004 ha collaborato come inviato speciale del quotidiano russo “Russkiy Kurier”, fondato da Igor Golembiovsky, ex giornalista di Novye Izvestiya, licenziato perché troppo critico nei confronti del Governo retto da Vladimir Putin.

Ha vinto il premio giornalistico "Arbitrariness in the Law" nel 2003 nella "Nomination per la violazione dei diritti individuali" e, nello stesso anno, è stata Vincitrice del Premio nazionale della stampa dell'Unione dei giornalisti della Federazione russa e di Amnesty International per i diritti umani e il rafforzamento della società civile in Russia.

 

Le è stato consegnato il Diploma del Premio Andrei Sacharov “Per il giornalismo come atto”, nel 2003 e nel 2004.

 

Dal 2004 al 2005 è stata redattore del dipartimento di politica interna per il giornale “Russkiy Kurier”.

Dal 2008 al 2016 ha lavorato preso la Public Monitoring Commission (PMC) di Mosca presso l’emittente “Radio Free Europe/Radio Liberty”.

Ha potuto così monitorare e supervisionare la situazione generale della città di Mosca in relazione alle dinamiche dei diritti umani, ma ha poi dovuto lasciare l’incarico per motivi legali, cadidandosi al Comitato di sorveglianza della Repubblica di Mordovia.

La sua candidatura è stata però respinta poiché l’FSB si è opposta.

Si è così dedicata ad effettuare frequenti visite di controllo presso la prigione moscovita di Lefortovo, la quale dipende ufficialmente dal Ministero della Giustizia, ma in realtà obbedisce ai dictat dell’FSB.



Carcere di Lefortovo, a Mosca

Durante le sue visite Zoja ha scoperto molte violazioni dei diritti umani, constatando che molti dei prigionieri non avevano neppure un avvocato, oppure non era loro permesso di incontrarlo.

Nel 2009 ha vinto il Premio Gerd Bucerius Free Press of Eastern Europe Award e, nel dicembre dello stesso anno, è diventata editorialista per la rivista The New Times.

Nel 2010 ha vinto il premio Moscow Helsinki Group Human Rights Award.

Il suo impegno per la difesa dei diritti umani si è palesato nel 2014 firmando un appello in cui si chiedeva il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina.

Ha vinto il premio pubblicistico “Libmission 2018” nella nomination "Per il coraggio nel sostenere i valori liberali", dopo aver pubblicato una serie di articoli sui portali MBH.media e Radio Liberty, dedicati alle persone che sono state incarcerate dal regime.

Nel 2020 il Presidente francese Emmanuel Macron ha conferito a Zoja Svetova il titolo di Cavaliere dell’ordine della Legion d'Onore.

Al di là delle date che scandiscono la sua carriera giornalistica e la sua biografia, va detto che occorre citare Zoja soprattutto per la sua incommensurabile statura morale, che le ha consentito di non piegarsi alla dittatura di Putin, nel cercare sempre di difendere i deboli e gli oppressi.

Ha preso a cuore molti casi di ingiustizia del regime contro i dissidenti, tra cui quello del regista ucraino Oleg Sentsov, condannato in Russia nel 2014 a venti anni di prigione con l'accusa di terrorismo, perché imputato di complottare per far saltare in aria una statua di Vladimir Lenin in Crimea.




Zoja ha affermato che non esisteva alcuna prova di questo presunto crimine, ma il regista fu ugualmente incarcerato perché si era dichiarato contrario all’annessione della Crimea da parte della Russia e palesando molto attivamente le sue simpatie verso il popolo ucraino, adoperandosi per facilitare il ritiro del loro personale militare intrappolato nelle basi della penisola, e fornendo loro cibo e rifornimenti.

Detenuto per oltre un anno nella prigione moscovita di Lefotovo, tristemente famosa per essere stata un luogo dell’orrore staliniano, nella quale Sentsov fu sottoposto a brutali torture, senza però mai dichiararsi colpevole, venne infine deportato da Putin in un gelido gulag degli Urali polari, nella Siberia centro settentrionale, a Labytnangi, nel circondario di Jamalo-Nenec.

Il suo caso ha mobilitato la solidarietà internazionale che ne ha chiesto il rilascio a più riprese, ma il regista è stato rilasciato solo nel 2019 nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia che prevedeva la liberazione di 35 detenuti per parte.

Zoja Svetova si è schierata anche contro il trattamento ricevuto dall'attivista e ricercatore careliano Yuri Dmitriev, il quale nel corso di 30 anni di studi e ricerche ha scoperto 236 fosse comuni di persone uccise durante l'era staliniana.

Dopo i ritrovamenti, i luoghi degli eccidi sono diventati siti commemorativi delle vittime delle repressioni comuniste, a molte delle quali Dmitriev è riuscito a dare un nome cognome.

Il ricercatore ha pubblicato anche i nomi dei carnefici dell’NKVD, i cui discendenti oggi lavorano nelle stesse strutture metamorfizzate (FSB), che sono state il fulcro dell’orrore staliniano.

Questo è il motivo per cui l’apparato poliziesco di Putin non vuole che si sappiano i nomi dei criminali che hanno commesso tali orrori, chiudendo la bocca a Dmitriev con una condanna, nel dicembre 2021, a 15 anni di detenzione.

Ecco un mio articolo su di lui, al seguente link :  DMITRIEV

Zoja Svetova ha anche affermato che molti casi di violazioni dei diritti umani non vengono mai riportati dai media, compresi quelli delle molte persone che sono incarcerate nonostante siano gravemente malate.

Putin ha trasformato la Giustizia russa in uno strumento di potere, docile e manipolabile, asservito ai suoi dictat e alle sue esigenze.

I Giudici sono diventati il mezzo con cui la Magistratura russa compiace il potere politico, rappresentato da Putin, usando le condanne come un manganello per colpire le vittime designate, in un ciclo perverso nel quale le assoluzioni degli imputati non arrivano all’uno per cento del totale dei processi.

Quando vengono procssati coloro che sono ritenuti da Putin nemici del Potere, gli stessi giudici ricevono chiare indicazioni su quale verdetto emettere e che durata debba avere la pena.

Solamente nei casi in cui sia presente una giuria popolare si riscontra un aumento delle assoluzioni pari al 15 %, ma non di rado gli elementi che compongono la Giuria vengono scelti tra coloro che fanno indirettamente parte dell’apparato repressivo stesso.

Dal 22 marzo 2022 la giornalista è impossibilitata a scrivere articoli, a seguito della feroce repressione putiniana, per mezzo della quale i giornalisti sono imbrigliati in una ferrea censura che proibisce loro di fornire informazioni, soprattutto sulla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, pena una condanna a 15 anni di carcere.

Anche i singoli cittadini non possono protestare contro la guerra, nemmeno pacificamente, come comprovano gli oltre mille arresti settimanali eseguiti dalla FSB nelle città russe.

Dopo tre o quattro fermi di polizia i recidivi rischiano un processo penale e una condanna a quattro anni di carcere.

Zoja ha perso il marito nel 2020 e passa le giornate prepando fascicoli e inchieste per il futuro, per quando avrà la libertà di poter pubblicare i suoi scritti.

Nel 2022 Putin ha obbligato il giornale Novaja Gazeta, su cui scriveva Zoja, e prima di lei Anna Politkovskaja e Anastasia Baburova, a sospendere le pubblicazioni, uccidendo definitivamente il giornalismo indipendente in Russia, e facendo retrocedere il Paese ai tempi bui del totalitarismo comunista dell’era sovietica.

Vladimir Putin non è più la guida di un Paese democratico o di un Paese autoritario, ma un dittatore che spaventa il mondo intero attraverso la minaccia nucleare.



La sua arroganza è pari solo alla sua ferocia, e lo dimostrano le aggressioni della Cecenia, completamente rasa al suolo, e della Georgia, oltre all’invasione della Crimea e del Donbass, fino all’ultima manifestazione di onnipotenza con cui ha mosso il suo esercito contro lo Stato sovrano dell’Ucraina.

La repressione della libera informazione ha costretto decine di giornalisti a lasciare la Russia, e l’invasione dell’Ucraina ha aggravato la situazione.

Zoja ha dichiarato che “Oltre cento leggi repressive sono state varate in questi anni e almeno quaranta media indipendenti sono stati dichiarati agenti stranieri”.

Putin è intenzionato a riportare il Paese all’epoca sovietica, fermando la Storia e imponendo il totalitarismo e la censura, privando le persone della libertà e sacrificando la Pace.




Il motivo per cui Putin odia l’Ucraina va riceracato proprio nel fatto che l’intera cittadinanza di quel paese sovrano ha deciso con determinazione di essere indipendente, fin dai tempi della Rivoluzione arancione, e cioè dalle azioni di protesta del 2004-2005 seguite poi nel 2014 dalla rivolta di Piazza Maidan.

Putin odia ferocemente il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che si è frapposto ai suo piani egemonici, e intende radere al suolo l’intero Paese  e sostituirlo con una marionetta del Cremlino, esattamente come ha fatto con Cecenia e Crimea.

Per realizzare i suoi piani, il sociopatico russo si è contornato di agenti dei servizi speciali, eredi di quei cekisti che cavalcarono il terrore staliniano, affidando a loro la gestione delle forze di polizia, del sistema giudiziario e di quello carcerario, in un carosello di abusi che si sono succeduti in modo esponenziale dalla sua ascesa al potere.

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Dissenso

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lunedì 29 agosto 2022

L’ARMENIA: DAL GENOCIDIO A OGGI

Negli articoli seguenti, consultabili cliccando sul relativo link, è esposta la Storia della popolazione armena sotto il dominio ottomano, fino al genocidio di 1,5 milioni di esseri umani avvenuto da 1915 al 1918.

I PRODROMI DEL GENOCIDIO ARMENO

ARMENI: IL GENOCIDIO FINALE

Come si sa la posizione ufficiale degli Stati, a livello internazionale, è quella che riconosce il genocidio, tranne la Cina e la Turchia.

Quest’ultima in particolare ha espresso al riguardo una teoria platealmente negazionista, nonostante gli accertamenti storici che oggettivamente confermano il genocidio, asserendo che le morti sono avvenute durante le deportazioni e i trasferimenti forzati delle masse popolari, e che quindi non erano deliberate.

Oltre a ciò la Turchia minimizza sul numero delle vittime, tentando di ridimensionarlo, palesando così l’intenzione di non chiedere scusa per il crimine commesso.

Il Governo turco ha addirittura emanato una legge secondo la quale chiunque lo definisca “genocidio” è punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, per vilipendio dell’Identità nazionale.

L’Armenia di oggi, che fu federata all’interno dell’Unione Sovietica dal 1920, ha proclamato la sua indipendenza nel 1991, entrando a far parte della CSI (Comunità Stati Indipendenti).

Da allora l’Armenia è un paese che tenta progressivamente e con fatica di costruire il proprio futuro, pur essendo partito da una situazione non facile.



Il territorio armeno è di circa 30.000 kmq, confina ad ovest con la Turchia, ad est con l’Azerbaijan, a nord con Georgia e Russia, e a sud con l’Iran,  ed è quindi privo di sbocchi sul mare.

Al Paese mancano anche le risorse energetiche, ed ha quindi pagato un alto prezzo economico al momento del crollo dell’Unione Sovietica, di cui era una delle Repubbliche.



All’indomani dell’indipendenza il Governo armeno ha attuato un piano di privatizzazioni nel settore agricolo ed industriale, coadiuvandolo con un ingente contributo offerto dalla diaspora.

Questo percorso di rinascita è stato però rallentato dal conflitto con l’Azerbaijan per il controllo dei territori del Nagorno-Karabakh, una enclave armena in territorio azero che fu creata artificiosamente in epoca staliniana.

La popolazione del Nagorno-Karabakh, ufficialmente Repubblica dell’Artsakh, con capitale Sepanakert, ha rivendicato la propria indipendenza nel dicembre 1991, dopo la dissoluzione del gigante sovietico.

Da allora si sono succeduti sterili tentativi di negoziati, il cui insuccesso ha portato alla chiusura totale dei confini con l’Azerbaigian e la conseguente impossibilità di accedere alle risorse energetiche, specie petrolifere, di questo paese limitrofo.

La capitale del Nagorno è stata a lungo bombardata con missili a lungo raggio dall’esercito dell’Azerbaijan, che hanno provocato la morte di centinaia di mlitari e decine di civili.

La città è stata sventrata senza pietà, mentre l’aggressione militare è stata lodata sia dalla Turchia che dall’Iran, incentivando così il ricorso ai bombardamenti che sono infatti stati estesi alle città di Stepanakert e di Shusi e hanno colpito infrastrutture, scuole e asili.

La reazione armena non si è fatta attendere e si è concretizzata con l’uccisione di 400 militari azeri, tra cui molti terroristi dell’Isis siriano, e il ferimento di oltre 700 nemici, oltre all’abbattimento di tre aerei, un drone, e 13 veicoli corazzati.

La Turchia ha apertamente appoggiato l’invasione da parte dell’Azerbaijan del Nagorno-Karabakh, al punto che nel 2020 ha inviato 4.000 mercenari siriani dell’Isis nella regione per combattere contro gli armeni.

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Mercenari siriani dell'ISIS assoldati da Erdogan per combattere contro l'Armenia
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Ad ognuno di loro è stato concesso un ingaggio di 1.800 dollari USA al mese, per la durata di novanta giorni.

La fazione armata dell’opposizione siriana, da cui provengono le orde mercenarie, guidate dal Sultano Murat, si è resa disponibile poiché ciò rientra nell’ottica della cosiddetta “jihad” e cioè della guerra santa musulmana contro i cristiani.

Sono stati chiusi i confini con la Turchia, che non solo è alleata dell’Azerbaijan, ma con cui è aperta la dolorosa e annosa questione del riconoscimento del genocidio del 1915, sempre negato da Ankara.

Gli unici interlocutori politici ed economici per l’Armenia restano quindi l’Iran e la Russia, poiché anche con la confinante Georgia le relazioni non sono del tutto semplici, a causa di problemi creatisi nella regione georgiana di Javakheti, abitata prevalentemente da armeni.

Nel corso dell’ultimo ventennio pertanto, vista la sua delicata posizione geopolitica, l’Armenia si è vista costretta a rafforzare le proprie relazioni con Mosca, accettando, ad esempio, la presenza di basi militari russe nel proprio territorio per la durata di 25 anni, a seguito della firma di accordi bilaterali da parte dei rispettivi Ministri della Difesa siglati nel 2003.

Nel contempo però la società armena, che ha storicamente dato prova di considerevole compattezza etnica e culturale, ha negli ultimi tempi evidenziato una progressiva apertura ideologica verso l’Occidente e l’Europa.

In ambito prettamente politico-statale si deve registrare, nel 1996, l’adesione dell’Armenia all’Accordo di Partnerariato e Cooperazione con l’Unione Europea, divenendo poi anche membro del Consiglio d’Europa.

Anche a livello di opinione pubblica si registrano segnali di cambiamento, tanto che da recenti sondaggi emenge che sta aumentando in modo esponenziale il numero dei cittadini armeni che preferirebbe l’adesione dell’Armenia all’UE piuttosto che al CSI.

L’Armenia è un Paese di circa 3.200.000 abitanti, in massima parte di etnia armena, con minoranze russe, greche ed ebraiche, e la popolazione è  prevalentemente urbanizzata, sia nella capitale Erevan che in altri centri come Vanadzor e Gyumri.

E’ in corso infatti un progressivo spopolamento delle aree rurali più marginali del Paese, aggravato dal fatto che le regioni del nord, già povere, sono state colpite nel dicembre 1988 da un devastante terremoto.

Dopo il genocidio del 1915 le comunità armene si sono sparse in ogni angolo del pianeta, costituendo una diaspora in cui protagonisti, pur integrandosi nelle rispettive località in cui si erano trasferiti, sono rimasti legati da un senso di appartenenza alla loro cultura originaria, alle tradizioni, agli usi, alla lingua, alla religione.

Per tutti rimane un senso di sofferenza per il fatto che ancora oggi non sia stato riconosciuto dalla Turchia quel genocidio che li condusse lontano dalla terra di origine.

Gli armeni della diaspora hanno tuttavia dei punti di incontro e di riferimento per la conservazione del proprio patrimonio culturale, e tra questi uno dei più importanti è sull’isola di San Lazzaro a Venezia, che dal 1717 è sede del Monastero Mechitarista, e dove si conserva una preziosissima raccolta di manoscritti armeni antichi, seconda per importanza solo al Matenadaran di Erevan.


Isola di San Lazzaro degli Armeni, sede dell'Abbazia
Generale della Congregazione Mechitarista dal 1717

Da venticinque anni, ogni estate nel mese di agosto, armeni di tutte le età, provenienti da diverse nazioni, si danno appuntamento a Venezia dove studiano o approfondiscono la lingua e la storia armene, presso i corsi organizzati dall’Associazione Padus-Araxes, in un contesto nel quale emerge l’esigenza non solo di conoscere meglio le proprie origini, ma anche di riappropriarsi di una innata “amenità”, sia che i partecipanti provengano da New York, Parigi, o Atene, e che abbiano venti, quaranta o sessant’anni.

La realtà storica odierna ci consegna comunque una situazione in cui ancora una volta la Turchia infierisce sulla popolazione armena, e lo fa fornendo appoggio militare ad un Azerbaijan già forte dal punto di vista degli armamenti, essendo infatti dotato anche di moderni droni.

Gli armeni abitano da sempre le remote valli del Caucaso, ora rivendicate dall’Azerbaijan, il quale tenta di far scomparire la presenza armena cancellandone le tracce, distruggendo le chiese, bruciando le case, e reinventando la Storia, plasmandola a proprio uso e consumo, come già fece la Turchia in un passato non troppo lontano.

E’ in questo modo che gli azeri hanno fatto scomparire del tutto le tracce della presenza armena nei territori dell’exclave Nakhicevan (o Naxcivan) situata all’interno dell’Armenia stessa.

In tale contesto appare sempre più imbarazzante il silenzio di quella Unione Europea che appare sempre di più come strumento delle sinistre, balbettante ed esitante di fronte allo stupro della democrazia, incapace di decidere se continuare i lucrosi commerci con gli Stati canaglia o se invece prendere decise posizioni contro le dittature e contro il disprezzo dei diritti umani.

Appare anche significativo il legame tra la Turchia di Erdogan e le milizie islamiche dell’Isis, i Fratelli musulmani, conclamante il punto di incontro tra un neo ottomanesimo panslavista e l’integralsimo islamico.

Va detto che l’Armenia, oltre ad essersi legata alla Russia per motivi di sopravvivenza, ha seguito lo stesso percorso allacciando rapporti amichevoli con l’Iran, e ciò ha definito per il “gioco delle parti” anche la posizione di Israele nei suoi riguardi.

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Israele si è infatti alleata con gli azeri, in funzione anti iraniana, interpretando il ruolo di fornitore di armi, usate poi contro l’Armenia, mettendo così in primo piano la similitudine di due popoli, quello armeno e quello ebraico, sopravvissuti entrambi ad un genocidio.

Per contro, risulta essere contrastante e stridente il rapporto di equivalenza che intercorre nell’intreccio dei legami politici, che vedono da un lato l’odio antiebraico e antisraeliano della Fratellanza islamica di Erdogan, e dall’altro la triplice e paradossale alleanza fra Turchia, Azerbaijan e Israele, tutti uniti nell’uso mortale dei droni contro il popolo armeno.

Il contingente russo, stanziatosi con l’intento ufficiale di mantenere la pace, si dibatte nell’ambiguità che vede Mosca schierarsi da un lato a favore degli armeni e dall’altro come venditore di armi agli azeri.

Il conflitto etnico degli anni ’90, sostenuto da Erevan, nel quale gli armeni del Nagorno-Karabakh si sono separati dall’Azerbaijan, e che provocò migliaia di vittime, ha ripreso vigore nel 2020 con l’aggressione azera che ha riconquistato parte dei territori controllati dai separatisti, costata altri 6.500 morti.

Tutti gli attori intervenuti nella vicenda, come la Russia, Israele, la Turchia, assumono le sembianze di cani che si contendono un osso da spolpare, e poco importa che in mezzo ci sia la popolazione civile, stremata e in balia dell’odio che da decenni li perseguita.

L’Europa, nel luglio 2022, ha finalmente preso una posizione sul conflitto, ma paradossalmente, in seguito al conflitto russo-ucraino ha stabilito che prima di intervenire ufficialmente è necessario che l’Armenia rompa i suoi stretti legami con la Russia.

D’altra parte è anche vero che l’Armenia è un membro dell’Unione eurasiatica a trazione russa, e della Csto, l’alleanza militare post sovietica controllata da Mosca a cui nel 1992 aderirono Russia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan.

L’intreccio di politica, etnie, religioni, interessi economici, si somma ad un retroscena tragico che ha caratterizzato la Storia del popolo armeno, schiacciato fra l’esigenza di sopravvivere e i contorsionismi imposti dalla contingenza e dalle dinamiche attuali, preda dell’odio turco e della voracità azera, in un percorso di annichilimento da cui sembra, ad oggi, molto difficile uscire.

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Dissenso

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domenica 14 agosto 2022

Il comunismo del PD

Il 2021 è stato l’anno in cui con grande enfasi tutto l’apparato della politica sinistroide, oggi metamorfizzata sotto termini come “democratico” o “area dem”, ha celebrato il centenario della nascita di quel P.C.I. da cui trae il proprio retaggio politico e pseudo culturale.

Un retaggio proliferato all’insegna della menzogna per nascondere all’opinione pubblica gli orrori commessi dal comunismo e per presentarlo come “paradiso” dell’umanità.

Un paradiso che è stato però sempre intriso di un odio cieco e incommensurabile, a causa del quale hanno trovato la morte oltre cento milioni di esseri umani innocenti, solo nel secolo scorso, continuando ancora oggi a mietere vittime nei luoghi in cui il comunismo è ancora in vita, come in Cina o nella Corea del Norrd, solo per citarne un paio.

Il Partito comunista ha sempre cercato di nascondere il suo legame con Mosca, cercando di far vedere una realtà diversa da quella che era, mimetizzandosi e proclamandosi, ad esempio attraverso Enrico Berlinguer, come comunisti atipici, sostituendo subdolamente e furbescamente le politiche anti borghesi e anti capitaliste con un anacronistico antifascismo.


Il filo di sangue che collega l’ideologia comunista, ovunque essa sia, è sempre stato ben visibile a chiunque, a livello planetario, e ciò ha costretto i seguaci di Togliatti a compiere metamorfosi di facciata, continuando nel frattempo a ricevere cospicui finanziamenti da Mosca.

La macchina del fango comunista, sempre attiva, provvede oltre a demonizzare chiunque non sia allineato ai dictat del “pensiero unico” marxista, a spargere disinformazione storica e a minimizzare sui crimini dei vari gerarchi comunisti sanguinari autori di genocidi e di deportazioni epocali.

Anche per quanto riguarda la genesi del fascismo, gli pseudo intellettuali radical chic che palesano un arrogante atteggiamento di superiorità intellettuale, palesando di essere depositari dell’unica verità possibile, sproloquiano sulle violenze fasciste del 1921, tacendo omertosamente su quelle che assediarono l’Italia nel famigerato biennio rosso che le aveva precedute.

I vari Istituti storici come il “Ferruccio Parri” sono creature della sinistra, appositamente concepite per poter manipolare ed egemonizzare la verità storia, addomesticandola a proprio uso e consumo, così come la Rete degli Istituti storici dell’Emilia Romagna, che si nutrono di antifascismo e di odio.

La didattica manipolata attraverso cui questi pseudo storici manifestano una compiacente sudditanza con le tesi imposte dai seguaci di Togliatti, oggi ammantati del termine “democratico”, che palesa un evidente ossimoro, stupra quotidianamente la verità dei fatti, sostituendola con tesi giustificazioniste, riduzioniste, o negazioniste, a seconda dei casi.

Questo tipo di informazione, che piace molto all’ANPI e a tutti coloro che tributano ogni sorta di onori alla massa delinquenziale del partigianato comunista, considerando gli orrendi crimini delle Brigate Garibaldi come un lecito percorso di lotta politica, omettono astutamente di evidenziare che lo scopo del comunismo a quei tempi (e anche successivamente) era quello di prendere il potere con le armi e di trasformare l’Italia in un satellite sovietico.



Tale itinerario criminale fu percorso da Longo e Togliatti, pianificando l’uccisione di altri partigiani colpevoli di non essere comunisti e che quindi avrebbero potuto costituire un ostacolo alla riuscita del piano criminale.

Fu per questo motivo che gli “eroici combattenti” cari al PCI, all’ANPI, e agli pseudo intellettuali delle sinistre odierne, quelli che cantano “bella ciao” in ogni occasione, manifestarono il loro odio comunista trucidando a sangue freddo i Carabinieri Reali a Malga Bala, nelle Cave di Predil vicino a Tarvisio, oppure massacrando venti partigiani della Brigata Osoppo a Porzus, in Friuli.

La lista dei crimini comunisti nei territori dell’Italia orientale fu l’esito della politica criminale del PCI, tesa a compiacere Stalin e Tito, e a offrire loro i territori istriani che divennero legittimamente italiani grazie al Trattato di Rapallo.

Il massimo artefice del crimine comunista italiano fu senza dubbio Palmiro Togliatti, che ancora oggi viene vezzeggiato dai radical chic del PD, o dai gruppuscoli nostalgici delle sinistre più becere, con il vezzeggiativo di “il Migliore”! 

Anche in questo caso la disinformazione espressa dalla macchina del fango post comunista evita di dire che Togliatti fu responsabile della morte di un elevato numero di comunisti, socialisti, anarchici o componenti della variegata galassia di antifascisti, inviati a Mosca dal “Migliore” per essere epurati dalla NKVD.

In effetti uccise più comunisti Togliatti, alias Ercole Ercoli, alis Mario Corenti, insieme al suo apparato delinquenziale con sede a Roma e terminale a Mosca, composto da elementi criminali come Giuseppe Dozza, Luigi Longo, Gian Carlo Pajetta, Antonio Roasio, Paolo Robotti, Vittorio Vidali, Ilio Barontini, Pietro Secchia, Giovanni Germanetto, Domenico Ciufoli, Aldo Moranti, Elena Montagnana che il regime fascista in vent’anni di governo.

Il PD ha adottato lo stesso metodo usato dal PCI per quanto riguarda la demonizzazione dell’avversario politico, facendo ricorso alla macchina del fango e palesando lo stesso odio dei suoi predecessori, senza il quale non potrebbe esistere, essendo questo un elemento inscindibile della sua stessa essenza vitale.

Oltre a questo il vecchio PCI di cui oggi il PD è l’erede diretto si faceva vanto della lotta partigiana, nonostante il fatto che i comunisti avessero svolto un ruolo criminale, costituendo una vera e propria spina nel fianco dell’apparato resistenziale.

Il PD oggi, vero esempio di camaleontismo politico, si palesa come paladino dei diritti gay e dell’antirazzismo, intercalando l’autoproclamazione a ”democratici” a prese di posizione che condannano lo stalinismo come forma degenerativa del comunismo reale.

Tuttavia, nonostante i proclami, l’essenza del comunismo si rivela oggi nel modus operandi dei suoi stessi artefici, che arrogantemente si arroccano sugli scranni del potere senza aver avuto una benchè minima legittimazione elettorale, palesando un disprezzo per la democrazia e per le istituzioni che caratterizza, caso mai ce ne fosse bisogno, i seguaci di Togliatti.

Il PCI nacque a Livorno il 21 gennaio 1921 dalla scissione del PSI e morì ufficialmente il 3 febbraio 1991, dopo il crollo del Muro di Berlino, non senza aver provocato nei suoi 70 anni di presenza nella società civile una serie di danni incalcolabili per la democrazia del nostro Paese.

Eppure la prosopopea di personaggi come Romano Prodi, Massimo D’Alema, Valter Veltroni, Rosy Bindi, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino, Nicola Zingaretti, Enrico Letta, pur manifestando reciproche intolleranze e diatribe infinite fra le diverse fazioni che li caratterizzano, hanno trovato un elemento di convergenza celebrando nel 2021 il centenario della nascita del PCI.

I “dinosauri” della politica appartenenti al PD hanno organizzato manifestazioni come quella di Milano, intitolata “Cento anni dopo. L’eredità politica del PCI”, oltre a stanziare cospicui finanziamenti di quasi 500.000 euro per le celebrazioni, palesando così non solo la supina accettazione dei crimini e dei criminali di cui il vecchio PCI fu responsabile, ma anche sbugiardando le tante prese di posizione contro un comunismo che loro stessi avevano bollato come espressione dei gulag o della repressione popolare in Ungheria.

Due volti, quelli del PD, uno metamorfico e mimetico, subdolo e ambiguo, e l’altro arrogante e autoreferenziale, che risultano essere comunque due lati della stessa medaglia.

Il PD non riesce a fare i conti con la Storia e con il proprio passato, come dimostrano i libri di testo delle scuole, nei quali ancora oggi viene presentata una verità storica addomesticata ad uso e consumo degli eredi di Togliatti.

Nei libri di Storia scolastici si accenna al famigerato “triangolo della morte” dell’Emilia Romagna, in cui vennero assassinati barbaramente decine di migliaia di esseri umani, per soddisfare la brama di sangue dei partigiani comunisti, a guerra finita.

E nemmeno c’è traccia degli stessi efferati omicidi a sangue freddo, commessi in tempo di Pace nelle altre regioni dell’Italia, in Toscana, Lombardia, Piemonte e Liguria.

A molti di questi criminali, a cui il PCI offrì tutto l’aiuto possibile per evitare il carcere, facendoli anche espatriare nei Paesi dell’est europeo, fu poi concessa l’amnistia emanata da Togliatti permettendo loro di rientrare in Patria.

Ne fu l’esempio ecclatante Francesco Moranino, uno squallido assassino messo dal PCI a capo delle formazioni partigiane che tanto piacciono all’ANPI e al PD.

Venne infatti inviato a comandare il distaccamento “Pisacane” delle Brigate Garibaldi, dove assunse lo pseudonimo di “Gemisto”, e poi la 50° Brigata Garibaldi e la XIIa Divisione Pietro Pajetta, entrambe comuniste.

Il 26 novembre del 1944, a Portula, in val Sessera, nei boschi dell’alto biellese, questo personaggio si macchiò di una strage efferata ed infame, organizzando una imboscata insieme ai suoi “garibaldini” e massacrando 7 persone.

Si trattò di due genovesi, agenti dei servizi segreti americani n missione, e di tre partigiani vercellesi che li accompagnavano, oltre a due delle loro mogli.

I partecipanti all’eccidio si abbandonarono al saccheggio, depredando le vittime dei loro beni personali che consistevano in 400 mila lire e un orologio, ricevendo anche dallo stesso Moranino un premio di 300 lire ciascuno.

Come si sa, nel dopoguerra a soli 27 anni di età Moranino fu eletto nelle file del PCI come Parlamentare e divenne sottosegretario al Ministero della guerra nel Governo De Gasperi.

La Giustizia italiana tentò di incarcerarlo ma grazie al PCI che lo fece espatriare a Praga Moranino non fece nemmeno un giorno di prigione.

Fu condannato all’ergastolo ma il Presidente Gronchi commutò la sua pena in dieci anni di reclusione, mentre il suo successore, il Presidente Giuseppe Saragat gli concesse la grazia, permettendogli di tornare libero in Italia, osannato come un eroe dal PCI.

Moranino fu eletto senatore del PCI e rimase in carica fino alla sua morte che avvenne nel 1971.



Questo è solo uno dei tanti esempi che costellano la Storia dell’Italia e del PCI, e di come l’arroganza degli eredi di Togliatti si sia sempre sovrapposta ai valori di giustizia e di libertà, palesati con la commemorazione della nascita del PCI.

Il Moloch comunista che ha oppresso e ucciso  milioni di esseri umani durante i decenni della dittatura sovietica, esempio di riferimento per il PCI di Palmiro Togliatti, è oggi ricordato con nostalgia da chi si presenta con l’appellativo di “Democratico” .

Nel 2020 la “democratica” Reggio Emilia ha palesato apertamente la sua sudditanza al retaggio politico comunista di togliattiana memoria, rifiutando di intitolare una strada cittadina a Norma Cossetto, la martire istriana trucidata e infoibata dai partigiani comunisti ad Antignana, nei pressi di Villa Surani nel 1943.

Nonostante il fatto che tale episodio dimostri e confermi la brutalità e la ferocia tipiche delle orde comuniste nei territori dell’Italia orientale, da cui prendere le distanze, e che la povera ragazza ricevette una decorazione postuma nel 2005 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, gli attuali eredi di Togliatti si sono opposti alla doverosa dedica di una via.

L’Istituto storico della resistenza reggiano (ISTORECO) infatti, così come il suo Presidente Massimo Storchi, hanno palesato il loro ruolo di “gendarmi della memoria” come ebbe a definirli lo scomparso Giampaolo Pansa, impedendo che si faccia luce sui lati oscuri della memoria e infangando il ricordo delle vittime uccise dai comunisti, opponendosi alla intitolazione della via a Norma Cossetto.

I nostalgici marxisti di Reggio Emilia, sempre pronti a ostacolare anche in modo violento coloro che non la pensano come loro, sono anche la testimonianza diretta di come l’odio comunista si sia profondamente incuneato nel substrato politico costituzionale, provocando marcescenze tossiche che avvelenano la democrazia e il concetto stesso di libertà.

Per questi personaggi Norma Cossetto, appena ventenne, era una fascista e come tale meritava di essere violentata ripetutamente, di essere mutilata dai suoi aguzzini che le tagliarono i seni e le infilarono un pezzo di legno nella vagina, e di essere infine gettata ancora viva in una foiba profonda 136 metri.

Se Massimo Storchi e ISTORECO si compiacciono di questo modus operandi, evidentemente rispecchiano esattamente il prototipo del comunista in quanto tale, e cioè criminale, assassino, perverso, sadico e indegno di essere chiamato essere umano.

In compenso il giustizialismo da quattro soldi dei coraggiosi e intrepidi tupamaros che rappresentano il microcosmo comunista reggiano non ha impedito di intitolare vie e piazze a veri ed effettivi criminali comunisti, colpevoli di aver massacrato migliaia di esseri umani,  come ad esempio Via Togliatti, Via Tito, il massacratore delle foibe, Piazza Lenin, Via Che Guevara, solo per indicarne alcuni.

In linea con le devastanti politiche del PCI, l’odierno PD si batte per conclamare leggi liberticide a discapito della democrazia, come ad esempio il famigerato progetto ZAN che discrimina i cittadini dotati di sesso ben definito a vantaggio di chi ancora non ha trovato una sua identità di genere.

Il modus operandi del PD riguardo le politiche dell’immigrazione dimostrano chiaramente come poco interessi ai dinosauri marxisti o post comunisti il fatto che decine di migliaia di clandestini irregolari approdino sul suolo italiano senza il necessario permesso, senza lavoro, senza casa, senza mezzi di sussistenza, al solo scopo di parassitarci e di delinquere.

La Legge Italiana per il PD è un optional a cui fare ricorso solamente quando si deve attaccare l’avversario politico, attraverso l’arroganza delle toghe rosse, proprio come faceva Stalin ricorrendo all’ìopera di Andrej Vysinskij il procuratore genocida comunista sovietico.

Cosa dire della senatrice del PD Monica Cirinnà che in occasione della manifestazione dell’8 marzo inalberò un cartello in cui era scritto a chiare lettere:

Dio-Patria-Famiglia: che vita de merda”.

Nel frattempo il PD partorisce anche il “reato d’opinione”, forse il più efferato dei reati di portata intellellegibile, affermando facendosene un comodo alibi che sia necessario difendere gli omosessuali dall’odio e dalla discriminazione.

Ciò è accaduto a Lizzano, in Puglia, dove è nato un gruppo di preghiera organizzato dal parroco, così come è costituzionalmente previsto nella totale legittimità, per pregare, appunto, contro il decreto Zan-Scalfarotto, suscitando le ire di coloro che invece sono allineati ai dictat del pensiero unico del PD.

Immagine blasfema
ad un gay pride
Un nutrito gruppo di disturbatori si è recato di fronte alla Chiesa per manifestare il proprio dissenso verso una iniziativa che a tutti gli effetti è apparsa perfettamente lecita, innescando la reazione del Parroco, Don Giuseppe Zito, che si è rivolto alle autorità cittadine richiedendo l’intervento delle forse dell’ordine.

In tale frangente, mentre gli agenti provvedevano a prendere le generalità dei disturbatori, come prevede la prassi, è giunta la Sindaca del Paese, Antonietta D’Oria, la quale si è abbandonata ad una farsa tragicomica vergognosa e indecorosa, soprattutto in considerazione del ruolo istituzionale che interpretava, inveendo contro le forze dell’ordine e prendendo le difese del manipolo di seguaci delle politiche di Zan e Scalfarotto.

Il paradosso si è conclamato definitivamente allorquando la Sindaca, in pieno delirio di onnipotenza, ha intimato agli agenti prendere le generalità anche dei fedeli pacificamente radunati in Chiesa, superando i confini dell’illecita interferenza dell’autonomia fra Stato e Chiesa.

La parzialità ideologica e il fanatismo che hanno contraddistinto l’operato della Sindaca di Lizzano, sono solo un esempio di come le politiche del PD di oggi rispecchino il modus operandi del vecchio PCI, sempre allineato contro la Chiesa e qualsiasi altra forma di espressione religiosa.

La libertà di culto, come quella esercitata da don Giuseppe Vito, è sempre stata osteggiata dal comunismo, così come continua ad esserlo ancora oggi in Paesi come la Cina, la Corea del Nord, la Russia, solo per indicarne alcuni.

Del resto occorre considerare che la demolizione del cristianesimo ha sempre avuto nelle massonerie il suo più vivace interprete, definito come esoterismo e anticristico, interpretato dalle pseudo democrazie illuministiche che hanno condotto alla complicità con le dittature comuniste.

La massoneria emerge dalle pieghe della Storia ogni qualvolta si conclami un evento epocale e storico, come ad esempio l’illuminismo che portò alla Rivoluzione francese, il marxismo che beatificando l’illuminismo condusse alla rivoluzione russa.

Rappresentazione del giudaismo massonico/bolscevico

Naturalmente, dell’illuminismo e del marxismo vengono raccontati solamente gli aspetti più edificanti, permettendo che succedessero abomini di portata planetaria, come quando fu permesso ad un caporale austriaco di nome Adolf Hitler di diventare il padrone del Male assoluto, o ad uno sconosciuto georgiano di nome Josif Stalin di uguagliarne e superarne la portata criminale.

L’illuminismo di Marx ed Engels afferma i concetti di violenza applicabile per esercitare e mantenere il potere, aprendo la porta alle teorie dello sterminio.

Occorre riflettere e considerare tutto ciò quando ci si trova a dover sopportare la presenza di formazioni politiche che si rifanno al comunismo, come il poli-metamorfizzato PD, ex Ulivo, ex DS, ex PDS, oppure come i nostalgici e anacronistici partiti, sempre presenti, come Rifondazione comunista, articolo UNO, Sinistra Italiana, LeU, Potere al Popolo, Sinistra rivoluzionaria, Partito comunista dei lavoratori, e chi più ne ha più ne metta.

Questo microcosmo di odiatori seriali, di protagonisti dell’inganno, di mistificatori professioniti, non hanno di certo a cuore la democrazia e la libertà, e per sincerarsene è sufficiente recarsi in quei luoghi dove la vita è ostaggio di un persistente comunismo che sfregia gli individui, privandoli del diritto di pensare e di agire secondo coscienza.

Il comunismo, Male assoluto, esiste ancora, e il PD ne è una appendice metamorfizzata…

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Dissenso

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