lunedì 29 agosto 2022

L’ARMENIA: DAL GENOCIDIO A OGGI

Negli articoli seguenti, consultabili cliccando sul relativo link, è esposta la Storia della popolazione armena sotto il dominio ottomano, fino al genocidio di 1,5 milioni di esseri umani avvenuto da 1915 al 1918.

I PRODROMI DEL GENOCIDIO ARMENO

ARMENI: IL GENOCIDIO FINALE

Come si sa la posizione ufficiale degli Stati, a livello internazionale, è quella che riconosce il genocidio, tranne la Cina e la Turchia.

Quest’ultima in particolare ha espresso al riguardo una teoria platealmente negazionista, nonostante gli accertamenti storici che oggettivamente confermano il genocidio, asserendo che le morti sono avvenute durante le deportazioni e i trasferimenti forzati delle masse popolari, e che quindi non erano deliberate.

Oltre a ciò la Turchia minimizza sul numero delle vittime, tentando di ridimensionarlo, palesando così l’intenzione di non chiedere scusa per il crimine commesso.

Il Governo turco ha addirittura emanato una legge secondo la quale chiunque lo definisca “genocidio” è punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, per vilipendio dell’Identità nazionale.

L’Armenia di oggi, che fu federata all’interno dell’Unione Sovietica dal 1920, ha proclamato la sua indipendenza nel 1991, entrando a far parte della CSI (Comunità Stati Indipendenti).

Da allora l’Armenia è un paese che tenta progressivamente e con fatica di costruire il proprio futuro, pur essendo partito da una situazione non facile.



Il territorio armeno è di circa 30.000 kmq, confina ad ovest con la Turchia, ad est con l’Azerbaijan, a nord con Georgia e Russia, e a sud con l’Iran,  ed è quindi privo di sbocchi sul mare.

Al Paese mancano anche le risorse energetiche, ed ha quindi pagato un alto prezzo economico al momento del crollo dell’Unione Sovietica, di cui era una delle Repubbliche.



All’indomani dell’indipendenza il Governo armeno ha attuato un piano di privatizzazioni nel settore agricolo ed industriale, coadiuvandolo con un ingente contributo offerto dalla diaspora.

Questo percorso di rinascita è stato però rallentato dal conflitto con l’Azerbaijan per il controllo dei territori del Nagorno-Karabakh, una enclave armena in territorio azero che fu creata artificiosamente in epoca staliniana.

La popolazione del Nagorno-Karabakh, ufficialmente Repubblica dell’Artsakh, con capitale Sepanakert, ha rivendicato la propria indipendenza nel dicembre 1991, dopo la dissoluzione del gigante sovietico.

Da allora si sono succeduti sterili tentativi di negoziati, il cui insuccesso ha portato alla chiusura totale dei confini con l’Azerbaigian e la conseguente impossibilità di accedere alle risorse energetiche, specie petrolifere, di questo paese limitrofo.

La capitale del Nagorno è stata a lungo bombardata con missili a lungo raggio dall’esercito dell’Azerbaijan, che hanno provocato la morte di centinaia di mlitari e decine di civili.

La città è stata sventrata senza pietà, mentre l’aggressione militare è stata lodata sia dalla Turchia che dall’Iran, incentivando così il ricorso ai bombardamenti che sono infatti stati estesi alle città di Stepanakert e di Shusi e hanno colpito infrastrutture, scuole e asili.

La reazione armena non si è fatta attendere e si è concretizzata con l’uccisione di 400 militari azeri, tra cui molti terroristi dell’Isis siriano, e il ferimento di oltre 700 nemici, oltre all’abbattimento di tre aerei, un drone, e 13 veicoli corazzati.

La Turchia ha apertamente appoggiato l’invasione da parte dell’Azerbaijan del Nagorno-Karabakh, al punto che nel 2020 ha inviato 4.000 mercenari siriani dell’Isis nella regione per combattere contro gli armeni.

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Mercenari siriani dell'ISIS assoldati da Erdogan per combattere contro l'Armenia
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Ad ognuno di loro è stato concesso un ingaggio di 1.800 dollari USA al mese, per la durata di novanta giorni.

La fazione armata dell’opposizione siriana, da cui provengono le orde mercenarie, guidate dal Sultano Murat, si è resa disponibile poiché ciò rientra nell’ottica della cosiddetta “jihad” e cioè della guerra santa musulmana contro i cristiani.

Sono stati chiusi i confini con la Turchia, che non solo è alleata dell’Azerbaijan, ma con cui è aperta la dolorosa e annosa questione del riconoscimento del genocidio del 1915, sempre negato da Ankara.

Gli unici interlocutori politici ed economici per l’Armenia restano quindi l’Iran e la Russia, poiché anche con la confinante Georgia le relazioni non sono del tutto semplici, a causa di problemi creatisi nella regione georgiana di Javakheti, abitata prevalentemente da armeni.

Nel corso dell’ultimo ventennio pertanto, vista la sua delicata posizione geopolitica, l’Armenia si è vista costretta a rafforzare le proprie relazioni con Mosca, accettando, ad esempio, la presenza di basi militari russe nel proprio territorio per la durata di 25 anni, a seguito della firma di accordi bilaterali da parte dei rispettivi Ministri della Difesa siglati nel 2003.

Nel contempo però la società armena, che ha storicamente dato prova di considerevole compattezza etnica e culturale, ha negli ultimi tempi evidenziato una progressiva apertura ideologica verso l’Occidente e l’Europa.

In ambito prettamente politico-statale si deve registrare, nel 1996, l’adesione dell’Armenia all’Accordo di Partnerariato e Cooperazione con l’Unione Europea, divenendo poi anche membro del Consiglio d’Europa.

Anche a livello di opinione pubblica si registrano segnali di cambiamento, tanto che da recenti sondaggi emenge che sta aumentando in modo esponenziale il numero dei cittadini armeni che preferirebbe l’adesione dell’Armenia all’UE piuttosto che al CSI.

L’Armenia è un Paese di circa 3.200.000 abitanti, in massima parte di etnia armena, con minoranze russe, greche ed ebraiche, e la popolazione è  prevalentemente urbanizzata, sia nella capitale Erevan che in altri centri come Vanadzor e Gyumri.

E’ in corso infatti un progressivo spopolamento delle aree rurali più marginali del Paese, aggravato dal fatto che le regioni del nord, già povere, sono state colpite nel dicembre 1988 da un devastante terremoto.

Dopo il genocidio del 1915 le comunità armene si sono sparse in ogni angolo del pianeta, costituendo una diaspora in cui protagonisti, pur integrandosi nelle rispettive località in cui si erano trasferiti, sono rimasti legati da un senso di appartenenza alla loro cultura originaria, alle tradizioni, agli usi, alla lingua, alla religione.

Per tutti rimane un senso di sofferenza per il fatto che ancora oggi non sia stato riconosciuto dalla Turchia quel genocidio che li condusse lontano dalla terra di origine.

Gli armeni della diaspora hanno tuttavia dei punti di incontro e di riferimento per la conservazione del proprio patrimonio culturale, e tra questi uno dei più importanti è sull’isola di San Lazzaro a Venezia, che dal 1717 è sede del Monastero Mechitarista, e dove si conserva una preziosissima raccolta di manoscritti armeni antichi, seconda per importanza solo al Matenadaran di Erevan.


Isola di San Lazzaro degli Armeni, sede dell'Abbazia
Generale della Congregazione Mechitarista dal 1717

Da venticinque anni, ogni estate nel mese di agosto, armeni di tutte le età, provenienti da diverse nazioni, si danno appuntamento a Venezia dove studiano o approfondiscono la lingua e la storia armene, presso i corsi organizzati dall’Associazione Padus-Araxes, in un contesto nel quale emerge l’esigenza non solo di conoscere meglio le proprie origini, ma anche di riappropriarsi di una innata “amenità”, sia che i partecipanti provengano da New York, Parigi, o Atene, e che abbiano venti, quaranta o sessant’anni.

La realtà storica odierna ci consegna comunque una situazione in cui ancora una volta la Turchia infierisce sulla popolazione armena, e lo fa fornendo appoggio militare ad un Azerbaijan già forte dal punto di vista degli armamenti, essendo infatti dotato anche di moderni droni.

Gli armeni abitano da sempre le remote valli del Caucaso, ora rivendicate dall’Azerbaijan, il quale tenta di far scomparire la presenza armena cancellandone le tracce, distruggendo le chiese, bruciando le case, e reinventando la Storia, plasmandola a proprio uso e consumo, come già fece la Turchia in un passato non troppo lontano.

E’ in questo modo che gli azeri hanno fatto scomparire del tutto le tracce della presenza armena nei territori dell’exclave Nakhicevan (o Naxcivan) situata all’interno dell’Armenia stessa.

In tale contesto appare sempre più imbarazzante il silenzio di quella Unione Europea che appare sempre di più come strumento delle sinistre, balbettante ed esitante di fronte allo stupro della democrazia, incapace di decidere se continuare i lucrosi commerci con gli Stati canaglia o se invece prendere decise posizioni contro le dittature e contro il disprezzo dei diritti umani.

Appare anche significativo il legame tra la Turchia di Erdogan e le milizie islamiche dell’Isis, i Fratelli musulmani, conclamante il punto di incontro tra un neo ottomanesimo panslavista e l’integralsimo islamico.

Va detto che l’Armenia, oltre ad essersi legata alla Russia per motivi di sopravvivenza, ha seguito lo stesso percorso allacciando rapporti amichevoli con l’Iran, e ciò ha definito per il “gioco delle parti” anche la posizione di Israele nei suoi riguardi.

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Israele si è infatti alleata con gli azeri, in funzione anti iraniana, interpretando il ruolo di fornitore di armi, usate poi contro l’Armenia, mettendo così in primo piano la similitudine di due popoli, quello armeno e quello ebraico, sopravvissuti entrambi ad un genocidio.

Per contro, risulta essere contrastante e stridente il rapporto di equivalenza che intercorre nell’intreccio dei legami politici, che vedono da un lato l’odio antiebraico e antisraeliano della Fratellanza islamica di Erdogan, e dall’altro la triplice e paradossale alleanza fra Turchia, Azerbaijan e Israele, tutti uniti nell’uso mortale dei droni contro il popolo armeno.

Il contingente russo, stanziatosi con l’intento ufficiale di mantenere la pace, si dibatte nell’ambiguità che vede Mosca schierarsi da un lato a favore degli armeni e dall’altro come venditore di armi agli azeri.

Il conflitto etnico degli anni ’90, sostenuto da Erevan, nel quale gli armeni del Nagorno-Karabakh si sono separati dall’Azerbaijan, e che provocò migliaia di vittime, ha ripreso vigore nel 2020 con l’aggressione azera che ha riconquistato parte dei territori controllati dai separatisti, costata altri 6.500 morti.

Tutti gli attori intervenuti nella vicenda, come la Russia, Israele, la Turchia, assumono le sembianze di cani che si contendono un osso da spolpare, e poco importa che in mezzo ci sia la popolazione civile, stremata e in balia dell’odio che da decenni li perseguita.

L’Europa, nel luglio 2022, ha finalmente preso una posizione sul conflitto, ma paradossalmente, in seguito al conflitto russo-ucraino ha stabilito che prima di intervenire ufficialmente è necessario che l’Armenia rompa i suoi stretti legami con la Russia.

D’altra parte è anche vero che l’Armenia è un membro dell’Unione eurasiatica a trazione russa, e della Csto, l’alleanza militare post sovietica controllata da Mosca a cui nel 1992 aderirono Russia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan.

L’intreccio di politica, etnie, religioni, interessi economici, si somma ad un retroscena tragico che ha caratterizzato la Storia del popolo armeno, schiacciato fra l’esigenza di sopravvivere e i contorsionismi imposti dalla contingenza e dalle dinamiche attuali, preda dell’odio turco e della voracità azera, in un percorso di annichilimento da cui sembra, ad oggi, molto difficile uscire.

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Dissenso

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domenica 14 agosto 2022

Il comunismo del PD

Il 2021 è stato l’anno in cui con grande enfasi tutto l’apparato della politica sinistroide, oggi metamorfizzata sotto termini come “democratico” o “area dem”, ha celebrato il centenario della nascita di quel P.C.I. da cui trae il proprio retaggio politico e pseudo culturale.

Un retaggio proliferato all’insegna della menzogna per nascondere all’opinione pubblica gli orrori commessi dal comunismo e per presentarlo come “paradiso” dell’umanità.

Un paradiso che è stato però sempre intriso di un odio cieco e incommensurabile, a causa del quale hanno trovato la morte oltre cento milioni di esseri umani innocenti, solo nel secolo scorso, continuando ancora oggi a mietere vittime nei luoghi in cui il comunismo è ancora in vita, come in Cina o nella Corea del Norrd, solo per citarne un paio.

Il Partito comunista ha sempre cercato di nascondere il suo legame con Mosca, cercando di far vedere una realtà diversa da quella che era, mimetizzandosi e proclamandosi, ad esempio attraverso Enrico Berlinguer, come comunisti atipici, sostituendo subdolamente e furbescamente le politiche anti borghesi e anti capitaliste con un anacronistico antifascismo.


Il filo di sangue che collega l’ideologia comunista, ovunque essa sia, è sempre stato ben visibile a chiunque, a livello planetario, e ciò ha costretto i seguaci di Togliatti a compiere metamorfosi di facciata, continuando nel frattempo a ricevere cospicui finanziamenti da Mosca.

La macchina del fango comunista, sempre attiva, provvede oltre a demonizzare chiunque non sia allineato ai dictat del “pensiero unico” marxista, a spargere disinformazione storica e a minimizzare sui crimini dei vari gerarchi comunisti sanguinari autori di genocidi e di deportazioni epocali.

Anche per quanto riguarda la genesi del fascismo, gli pseudo intellettuali radical chic che palesano un arrogante atteggiamento di superiorità intellettuale, palesando di essere depositari dell’unica verità possibile, sproloquiano sulle violenze fasciste del 1921, tacendo omertosamente su quelle che assediarono l’Italia nel famigerato biennio rosso che le aveva precedute.

I vari Istituti storici come il “Ferruccio Parri” sono creature della sinistra, appositamente concepite per poter manipolare ed egemonizzare la verità storia, addomesticandola a proprio uso e consumo, così come la Rete degli Istituti storici dell’Emilia Romagna, che si nutrono di antifascismo e di odio.

La didattica manipolata attraverso cui questi pseudo storici manifestano una compiacente sudditanza con le tesi imposte dai seguaci di Togliatti, oggi ammantati del termine “democratico”, che palesa un evidente ossimoro, stupra quotidianamente la verità dei fatti, sostituendola con tesi giustificazioniste, riduzioniste, o negazioniste, a seconda dei casi.

Questo tipo di informazione, che piace molto all’ANPI e a tutti coloro che tributano ogni sorta di onori alla massa delinquenziale del partigianato comunista, considerando gli orrendi crimini delle Brigate Garibaldi come un lecito percorso di lotta politica, omettono astutamente di evidenziare che lo scopo del comunismo a quei tempi (e anche successivamente) era quello di prendere il potere con le armi e di trasformare l’Italia in un satellite sovietico.



Tale itinerario criminale fu percorso da Longo e Togliatti, pianificando l’uccisione di altri partigiani colpevoli di non essere comunisti e che quindi avrebbero potuto costituire un ostacolo alla riuscita del piano criminale.

Fu per questo motivo che gli “eroici combattenti” cari al PCI, all’ANPI, e agli pseudo intellettuali delle sinistre odierne, quelli che cantano “bella ciao” in ogni occasione, manifestarono il loro odio comunista trucidando a sangue freddo i Carabinieri Reali a Malga Bala, nelle Cave di Predil vicino a Tarvisio, oppure massacrando venti partigiani della Brigata Osoppo a Porzus, in Friuli.

La lista dei crimini comunisti nei territori dell’Italia orientale fu l’esito della politica criminale del PCI, tesa a compiacere Stalin e Tito, e a offrire loro i territori istriani che divennero legittimamente italiani grazie al Trattato di Rapallo.

Il massimo artefice del crimine comunista italiano fu senza dubbio Palmiro Togliatti, che ancora oggi viene vezzeggiato dai radical chic del PD, o dai gruppuscoli nostalgici delle sinistre più becere, con il vezzeggiativo di “il Migliore”! 

Anche in questo caso la disinformazione espressa dalla macchina del fango post comunista evita di dire che Togliatti fu responsabile della morte di un elevato numero di comunisti, socialisti, anarchici o componenti della variegata galassia di antifascisti, inviati a Mosca dal “Migliore” per essere epurati dalla NKVD.

In effetti uccise più comunisti Togliatti, alias Ercole Ercoli, alis Mario Corenti, insieme al suo apparato delinquenziale con sede a Roma e terminale a Mosca, composto da elementi criminali come Giuseppe Dozza, Luigi Longo, Gian Carlo Pajetta, Antonio Roasio, Paolo Robotti, Vittorio Vidali, Ilio Barontini, Pietro Secchia, Giovanni Germanetto, Domenico Ciufoli, Aldo Moranti, Elena Montagnana che il regime fascista in vent’anni di governo.

Il PD ha adottato lo stesso metodo usato dal PCI per quanto riguarda la demonizzazione dell’avversario politico, facendo ricorso alla macchina del fango e palesando lo stesso odio dei suoi predecessori, senza il quale non potrebbe esistere, essendo questo un elemento inscindibile della sua stessa essenza vitale.

Oltre a questo il vecchio PCI di cui oggi il PD è l’erede diretto si faceva vanto della lotta partigiana, nonostante il fatto che i comunisti avessero svolto un ruolo criminale, costituendo una vera e propria spina nel fianco dell’apparato resistenziale.

Il PD oggi, vero esempio di camaleontismo politico, si palesa come paladino dei diritti gay e dell’antirazzismo, intercalando l’autoproclamazione a ”democratici” a prese di posizione che condannano lo stalinismo come forma degenerativa del comunismo reale.

Tuttavia, nonostante i proclami, l’essenza del comunismo si rivela oggi nel modus operandi dei suoi stessi artefici, che arrogantemente si arroccano sugli scranni del potere senza aver avuto una benchè minima legittimazione elettorale, palesando un disprezzo per la democrazia e per le istituzioni che caratterizza, caso mai ce ne fosse bisogno, i seguaci di Togliatti.

Il PCI nacque a Livorno il 21 gennaio 1921 dalla scissione del PSI e morì ufficialmente il 3 febbraio 1991, dopo il crollo del Muro di Berlino, non senza aver provocato nei suoi 70 anni di presenza nella società civile una serie di danni incalcolabili per la democrazia del nostro Paese.

Eppure la prosopopea di personaggi come Romano Prodi, Massimo D’Alema, Valter Veltroni, Rosy Bindi, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino, Nicola Zingaretti, Enrico Letta, pur manifestando reciproche intolleranze e diatribe infinite fra le diverse fazioni che li caratterizzano, hanno trovato un elemento di convergenza celebrando nel 2021 il centenario della nascita del PCI.

I “dinosauri” della politica appartenenti al PD hanno organizzato manifestazioni come quella di Milano, intitolata “Cento anni dopo. L’eredità politica del PCI”, oltre a stanziare cospicui finanziamenti di quasi 500.000 euro per le celebrazioni, palesando così non solo la supina accettazione dei crimini e dei criminali di cui il vecchio PCI fu responsabile, ma anche sbugiardando le tante prese di posizione contro un comunismo che loro stessi avevano bollato come espressione dei gulag o della repressione popolare in Ungheria.

Due volti, quelli del PD, uno metamorfico e mimetico, subdolo e ambiguo, e l’altro arrogante e autoreferenziale, che risultano essere comunque due lati della stessa medaglia.

Il PD non riesce a fare i conti con la Storia e con il proprio passato, come dimostrano i libri di testo delle scuole, nei quali ancora oggi viene presentata una verità storica addomesticata ad uso e consumo degli eredi di Togliatti.

Nei libri di Storia scolastici si accenna al famigerato “triangolo della morte” dell’Emilia Romagna, in cui vennero assassinati barbaramente decine di migliaia di esseri umani, per soddisfare la brama di sangue dei partigiani comunisti, a guerra finita.

E nemmeno c’è traccia degli stessi efferati omicidi a sangue freddo, commessi in tempo di Pace nelle altre regioni dell’Italia, in Toscana, Lombardia, Piemonte e Liguria.

A molti di questi criminali, a cui il PCI offrì tutto l’aiuto possibile per evitare il carcere, facendoli anche espatriare nei Paesi dell’est europeo, fu poi concessa l’amnistia emanata da Togliatti permettendo loro di rientrare in Patria.

Ne fu l’esempio ecclatante Francesco Moranino, uno squallido assassino messo dal PCI a capo delle formazioni partigiane che tanto piacciono all’ANPI e al PD.

Venne infatti inviato a comandare il distaccamento “Pisacane” delle Brigate Garibaldi, dove assunse lo pseudonimo di “Gemisto”, e poi la 50° Brigata Garibaldi e la XIIa Divisione Pietro Pajetta, entrambe comuniste.

Il 26 novembre del 1944, a Portula, in val Sessera, nei boschi dell’alto biellese, questo personaggio si macchiò di una strage efferata ed infame, organizzando una imboscata insieme ai suoi “garibaldini” e massacrando 7 persone.

Si trattò di due genovesi, agenti dei servizi segreti americani n missione, e di tre partigiani vercellesi che li accompagnavano, oltre a due delle loro mogli.

I partecipanti all’eccidio si abbandonarono al saccheggio, depredando le vittime dei loro beni personali che consistevano in 400 mila lire e un orologio, ricevendo anche dallo stesso Moranino un premio di 300 lire ciascuno.

Come si sa, nel dopoguerra a soli 27 anni di età Moranino fu eletto nelle file del PCI come Parlamentare e divenne sottosegretario al Ministero della guerra nel Governo De Gasperi.

La Giustizia italiana tentò di incarcerarlo ma grazie al PCI che lo fece espatriare a Praga Moranino non fece nemmeno un giorno di prigione.

Fu condannato all’ergastolo ma il Presidente Gronchi commutò la sua pena in dieci anni di reclusione, mentre il suo successore, il Presidente Giuseppe Saragat gli concesse la grazia, permettendogli di tornare libero in Italia, osannato come un eroe dal PCI.

Moranino fu eletto senatore del PCI e rimase in carica fino alla sua morte che avvenne nel 1971.



Questo è solo uno dei tanti esempi che costellano la Storia dell’Italia e del PCI, e di come l’arroganza degli eredi di Togliatti si sia sempre sovrapposta ai valori di giustizia e di libertà, palesati con la commemorazione della nascita del PCI.

Il Moloch comunista che ha oppresso e ucciso  milioni di esseri umani durante i decenni della dittatura sovietica, esempio di riferimento per il PCI di Palmiro Togliatti, è oggi ricordato con nostalgia da chi si presenta con l’appellativo di “Democratico” .

Nel 2020 la “democratica” Reggio Emilia ha palesato apertamente la sua sudditanza al retaggio politico comunista di togliattiana memoria, rifiutando di intitolare una strada cittadina a Norma Cossetto, la martire istriana trucidata e infoibata dai partigiani comunisti ad Antignana, nei pressi di Villa Surani nel 1943.

Nonostante il fatto che tale episodio dimostri e confermi la brutalità e la ferocia tipiche delle orde comuniste nei territori dell’Italia orientale, da cui prendere le distanze, e che la povera ragazza ricevette una decorazione postuma nel 2005 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, gli attuali eredi di Togliatti si sono opposti alla doverosa dedica di una via.

L’Istituto storico della resistenza reggiano (ISTORECO) infatti, così come il suo Presidente Massimo Storchi, hanno palesato il loro ruolo di “gendarmi della memoria” come ebbe a definirli lo scomparso Giampaolo Pansa, impedendo che si faccia luce sui lati oscuri della memoria e infangando il ricordo delle vittime uccise dai comunisti, opponendosi alla intitolazione della via a Norma Cossetto.

I nostalgici marxisti di Reggio Emilia, sempre pronti a ostacolare anche in modo violento coloro che non la pensano come loro, sono anche la testimonianza diretta di come l’odio comunista si sia profondamente incuneato nel substrato politico costituzionale, provocando marcescenze tossiche che avvelenano la democrazia e il concetto stesso di libertà.

Per questi personaggi Norma Cossetto, appena ventenne, era una fascista e come tale meritava di essere violentata ripetutamente, di essere mutilata dai suoi aguzzini che le tagliarono i seni e le infilarono un pezzo di legno nella vagina, e di essere infine gettata ancora viva in una foiba profonda 136 metri.

Se Massimo Storchi e ISTORECO si compiacciono di questo modus operandi, evidentemente rispecchiano esattamente il prototipo del comunista in quanto tale, e cioè criminale, assassino, perverso, sadico e indegno di essere chiamato essere umano.

In compenso il giustizialismo da quattro soldi dei coraggiosi e intrepidi tupamaros che rappresentano il microcosmo comunista reggiano non ha impedito di intitolare vie e piazze a veri ed effettivi criminali comunisti, colpevoli di aver massacrato migliaia di esseri umani,  come ad esempio Via Togliatti, Via Tito, il massacratore delle foibe, Piazza Lenin, Via Che Guevara, solo per indicarne alcuni.

In linea con le devastanti politiche del PCI, l’odierno PD si batte per conclamare leggi liberticide a discapito della democrazia, come ad esempio il famigerato progetto ZAN che discrimina i cittadini dotati di sesso ben definito a vantaggio di chi ancora non ha trovato una sua identità di genere.

Il modus operandi del PD riguardo le politiche dell’immigrazione dimostrano chiaramente come poco interessi ai dinosauri marxisti o post comunisti il fatto che decine di migliaia di clandestini irregolari approdino sul suolo italiano senza il necessario permesso, senza lavoro, senza casa, senza mezzi di sussistenza, al solo scopo di parassitarci e di delinquere.

La Legge Italiana per il PD è un optional a cui fare ricorso solamente quando si deve attaccare l’avversario politico, attraverso l’arroganza delle toghe rosse, proprio come faceva Stalin ricorrendo all’ìopera di Andrej Vysinskij il procuratore genocida comunista sovietico.

Cosa dire della senatrice del PD Monica Cirinnà che in occasione della manifestazione dell’8 marzo inalberò un cartello in cui era scritto a chiare lettere:

Dio-Patria-Famiglia: che vita de merda”.

Nel frattempo il PD partorisce anche il “reato d’opinione”, forse il più efferato dei reati di portata intellellegibile, affermando facendosene un comodo alibi che sia necessario difendere gli omosessuali dall’odio e dalla discriminazione.

Ciò è accaduto a Lizzano, in Puglia, dove è nato un gruppo di preghiera organizzato dal parroco, così come è costituzionalmente previsto nella totale legittimità, per pregare, appunto, contro il decreto Zan-Scalfarotto, suscitando le ire di coloro che invece sono allineati ai dictat del pensiero unico del PD.

Immagine blasfema
ad un gay pride
Un nutrito gruppo di disturbatori si è recato di fronte alla Chiesa per manifestare il proprio dissenso verso una iniziativa che a tutti gli effetti è apparsa perfettamente lecita, innescando la reazione del Parroco, Don Giuseppe Zito, che si è rivolto alle autorità cittadine richiedendo l’intervento delle forse dell’ordine.

In tale frangente, mentre gli agenti provvedevano a prendere le generalità dei disturbatori, come prevede la prassi, è giunta la Sindaca del Paese, Antonietta D’Oria, la quale si è abbandonata ad una farsa tragicomica vergognosa e indecorosa, soprattutto in considerazione del ruolo istituzionale che interpretava, inveendo contro le forze dell’ordine e prendendo le difese del manipolo di seguaci delle politiche di Zan e Scalfarotto.

Il paradosso si è conclamato definitivamente allorquando la Sindaca, in pieno delirio di onnipotenza, ha intimato agli agenti prendere le generalità anche dei fedeli pacificamente radunati in Chiesa, superando i confini dell’illecita interferenza dell’autonomia fra Stato e Chiesa.

La parzialità ideologica e il fanatismo che hanno contraddistinto l’operato della Sindaca di Lizzano, sono solo un esempio di come le politiche del PD di oggi rispecchino il modus operandi del vecchio PCI, sempre allineato contro la Chiesa e qualsiasi altra forma di espressione religiosa.

La libertà di culto, come quella esercitata da don Giuseppe Vito, è sempre stata osteggiata dal comunismo, così come continua ad esserlo ancora oggi in Paesi come la Cina, la Corea del Nord, la Russia, solo per indicarne alcuni.

Del resto occorre considerare che la demolizione del cristianesimo ha sempre avuto nelle massonerie il suo più vivace interprete, definito come esoterismo e anticristico, interpretato dalle pseudo democrazie illuministiche che hanno condotto alla complicità con le dittature comuniste.

La massoneria emerge dalle pieghe della Storia ogni qualvolta si conclami un evento epocale e storico, come ad esempio l’illuminismo che portò alla Rivoluzione francese, il marxismo che beatificando l’illuminismo condusse alla rivoluzione russa.

Rappresentazione del giudaismo massonico/bolscevico

Naturalmente, dell’illuminismo e del marxismo vengono raccontati solamente gli aspetti più edificanti, permettendo che succedessero abomini di portata planetaria, come quando fu permesso ad un caporale austriaco di nome Adolf Hitler di diventare il padrone del Male assoluto, o ad uno sconosciuto georgiano di nome Josif Stalin di uguagliarne e superarne la portata criminale.

L’illuminismo di Marx ed Engels afferma i concetti di violenza applicabile per esercitare e mantenere il potere, aprendo la porta alle teorie dello sterminio.

Occorre riflettere e considerare tutto ciò quando ci si trova a dover sopportare la presenza di formazioni politiche che si rifanno al comunismo, come il poli-metamorfizzato PD, ex Ulivo, ex DS, ex PDS, oppure come i nostalgici e anacronistici partiti, sempre presenti, come Rifondazione comunista, articolo UNO, Sinistra Italiana, LeU, Potere al Popolo, Sinistra rivoluzionaria, Partito comunista dei lavoratori, e chi più ne ha più ne metta.

Questo microcosmo di odiatori seriali, di protagonisti dell’inganno, di mistificatori professioniti, non hanno di certo a cuore la democrazia e la libertà, e per sincerarsene è sufficiente recarsi in quei luoghi dove la vita è ostaggio di un persistente comunismo che sfregia gli individui, privandoli del diritto di pensare e di agire secondo coscienza.

Il comunismo, Male assoluto, esiste ancora, e il PD ne è una appendice metamorfizzata…

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Dissenso

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giovedì 4 agosto 2022

Il Vietnam comunista e le boat people

 

Il termine boat people è entrato nell'uso comune nel 1976, dopo l'invasione del Vietnam del Sud il 30 aprile 1975 da parte del regime comunista del Vietnam del Nord, guidato da Ho Chi Minh,  all'epoca della nazionalizzazione delle imprese e della collettivizzazione delle terre.

In seguito all’annullamento dei finanziamenti statunitensi al Vietnam del Sud per il 1975 e il 1976, deciso dal Congresso americano, le forze nord vietnamite comuniste organizzarono una campagna militare contro i territori controllati da Saigon.

Dopo pesanti bombardamenti di artiglieria le orde comuniste presero Saigon, e la ribattezzarono Città di Ho Chi Minh, in onore dello storico capo comunista nord vientmanita morto nel 1969.

Il Partito comunista vietnamita unificò a forza i due Stati, formandone uno unico socialista.

Durante l’avanzata delle truppe comuniste verso Saigon, centinaia di migliaia di persone fuggirono da quei territori per salvarsi dalle rappresaglie che li avrebbero colpiti se fossero rimasti.

Le autorità comuniste avevano infatti già annunciato che i cattolici, gli intellettuali, gli uomini d’affari e altre categorie sociali sarebbero stati considerati come sospetti controrivoluzionari.

Alcuni cittadini americani erano già scomparsi, inghiottiti dal furore della vendetta comunista, e sottoposti ad esecuzioni e decapitazioni.

Parecchie decine di migliaia di persone, perseguitate in quanto considerate ostili al comunismo, decisero di fuggire via mare.


Coloro che decisero di rimanere pagarono a caro prezzo la loro scelta.

Il nuovo politburo vietnamita diede corso alla collettivizzazione delle campagne, come già aveva fatto Mao nel 1962 in Cina e Stalin nel 1933 in Ucraina con le devastanti conseguenze che tutti conoscono.

Il regime mise in atto le misure più barbare contro la popolazione, come gli espropri dei beni privati, la legge marziale, e i processi farsa nei quali i cosiddetti “tribunali del popolo”, davanti ai quali non c’era alcuna possibilità di difesa, infliggevano le condanne capitali alle vittime designate.

L’intera società assunse le sembianze di una massa di miserabili, affamati e in balìa degli aguzzini comunisti, tutti soggetti al programma di “rieducazione” imposto dal regime.

I gulag vietnamiti fagocitarono le vite di sacerdoti, bonzi, religiosi, rappresentanti della precedente amministrazione pubblica, intellettuali, artisti, scrittori, studenti, appropriandosene e plasmandone la cosiddetta “rieducazione” che consisteva nel dichiararsi colpevoli e nell’abbracciare in toto qualsiasi enunciato del materialismo dialettico marxista.

Le tecniche coercitive applicate dal regime comunista nei confronti dei deportati si articolavano secondo una prassi consolidata attraverso due fasi principali.

In primo luogo veniva usato lo strumento della fame, unito a quello del lavoro forzato, che lasciava i detenuti esausti, per spezzare ogni anelito di resistenza, in una sorta di applicazione al contario del concetto “mens sana in corpore sano”.

Secondariamente, ma non in ordine di importanza, il regime procedeva a spogliare gli individui del loro patrimonio intellettuale, religioso, psicologico e morale, precedentemente acquisiti, per sostituire tutto ciò con i paradigmi concettuali propri del marxismo e creare una sorta di riflesso condizionato che direzionasse le scelte del soggetto da rieducare.

Oltre ai detenuti questo trattamento disumano era inflitto anche alle famiglie, le quali venivano espulse dalle abitazioni e costrette a vivere per la strada, mendicando per sopravvivere poiché venivano private anche del diritto di ricevere razioni alimentari dalle organizzazioni di quartiere, o di accedere alle cure mediche e all’istruzione per i figli.



Nella sola città di Saigon vennero potenziate le forze di polizia aumentando l’organico a 30.000 unità, con la scusa che ciò era necessario per mantenetre la cosidetta “dittatura del proletariato”.

La lotta di classe fu violenta e sanguinosa e prese di mira l’intera popolazione, sequestrando i beni dei dirigenti d’industria, dei commercianti, delle banche e delle aziende agricole e donandoli all “rivoluzione”.

Le famiglie coinvolte vennero destinate al confino nelle cosiddette Nuove Zone Economiche, e cioè in quele zone rurali abbandonate dalla popolazione che cercava rifugio nelle città.

Il regime comunista promise di fornire una casa e gli attrezzi da lavoro necessari, oltre ad un aiuto economico, ma in realtà non fece nulla di tutto ciò, mandando invece le famiglie in regioni con caratteristiche paludose oppure con fitte boscaglie e senza alcun aiuto.

In pratica queste zone, nelle quali era molto difficile se non impossibile riuscire a sopravvivere, altro non erano che gulag camuffati, allo scopo di accogliere le categorie di persone che il regime intendeva eliminare.

Qualsiasi manifestazione di appartenenza religiosa venne severamente proibita e in particolare la Chiesa cattolica venne perseguitata e le sue Chiese furono chiuse.

Recentemente il Governo comunista ha creato una nuova Chiesa, sedicente e patriottica, indipendente da Roma, sul modello di quella cinese, allo scopo di calamitare e controllare con questo ambiguo espediente i flussi di fedeli.

L’insegnamento nelle scuole venne impartito non più dagli nsegnanti ma da membri del partito, spesso incompetenti e inadatti a tale ruolo, i quali inserirono come nuova materia di studio, obbligatoria, la “politica”.

Attraverso questo nuovo sistema “didattico” si conclamò un vero e proprio spirito di segregazione e di discriminazione scolastico, che garantì al regime il monopolio assoluto della formazione mentale degli studenti.

La Storia non solo del Vietnam ma dell’intero pianeta venne deformata e plasmata in modo da soddisfare i requisiti richiesti dalla propaganda comunista, mentre le tradizioni e i valori sociali che contraddistinguevano le popolazioni sudvietnamiite vennero estirpati e sacrificati al costume comunista.

Le uniche due associazioni giovanili riconosciute e consentite nel Vietnam furono i “Piccoli saggi nipoti dello zio Ho” per i bambini e la “Gioventù comunista” per gli adolescenti, mentre l’attività didattica all’interno di questi gruppi prevedeva, oltre all’indottrinamento, anche il ricorso all’abuso dell’innocenza infantile, spingendo i bambini al fanatismo e a spiare e denunciare i propri genitori e i vicini di casa.

Venne proibita qualunque libertà di espressione e imposto il divieto assoluto di criticare il partito comunista, pena l’accusa di essere reazionari o controrivoluzionari.

Ogni tipo di assembramento venne vietato, e vennero tollerati solo quelli determinati da occasioni come i matrimoni o i funerali, sempre sotto l’attenta e asfissiante sorveglianza della polizia.

La conseguenza fu un esodo epocale delle popolazioni sudvietnamite, che corrispose ad un flusso di centinaia di migliaia di persone verso la Thailandia o verso Hong Kong, attraverso le cosiddette “boat people” che atraversarono il Mare della Cina meridionale.

Si trattava di imbarcazioni di ogni tipo, carrette del mare, barche da pesca, vecchi piroscafi, stracolmi di esseri umani oltre la normale capienza consentita, che spesso affondavano causando immani tragedie.

Tutto ciò venne a conoscenza dell’opinione pubblica internazionale, compresa quella italiana, e questo indusse una missione umanitaria da parte della Marina Militare, la quale inviò nell’estate del 1979 gli incrociatori “Vittorio Veneto”, “Andrea Doria” e la nave appoggio “Stromboli” ad incrociare in quelle acque.



La missione, decisa da Governo Andreotti si protrasse dal 4 luglio al 20 agosto e trasse in salvo oltre 907 esseri umani, ma altri uomini, anziani, donne e bambini, aggrappati a scialuppe fradicie attraversarono le acque del Mar Cinese meridionale, sbattuti fra le onde, in preda di burasche e dei pirati, senza sapere quale sarebbe stato il loro destino.

Molti di loro furono respinti dalla Marina Malese e trovarono la morte, mentre altri furono preda dei pirati, i quali stuprarono le donne e depredarono gli uomini.




Oggi il Vietnam è uno dei Paesi più poveri dell’intero pianeta, a causa del fatto che la lotta di classe e l’avidità di potere spingono la dirigenza comunista a inserire alla guida delle imprese e delle attività commerciali, oltre che nei posti di comando della pubblica amministrazione, solo i membri del partito che provengono dalla classe operaia o contadina, quasi sempre ignoranti e totalmente privi delle necessarie conoscenze tecniche e culturali, mentre gli specialisti e gli intelettuali vengono spediti nei gulag.

Al primo periodo di esodo dal Vietnam del 1975-1979, seguì, dopo un periodo di pausa, un secondo esodo nel 1988-1990, la cui entità fu stimata in circa 800.000 persone.

Ne furono protagonisti, per la maggior parte, i vietnamiti che non trovarono un inserimento nelle nuove strutture socio-politiche-economiche di tipo nord-vietnamita, ma anche numerosissimi cinesi residenti in Vietnam, vittime dello stato di conflitto politico allora esistente con la Cina.

Il terribile fenomeno dei "Boat people" del Vietnam venne anche descritto dalla regista Ann Hui nel film "Boat people" (1982), distribuito in Italia col titolo di “Passaporto per l’inferno”.

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Dissenso

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mercoledì 3 agosto 2022

Dissidenza vietnamita : NGUYEN CHI THIEN

Nguyen Chi Thien

(Hanoi, 27 febbraio 1939-2 ottobre 2012)

Il giovane Nguyen

E’ stato un dissidente, attivista e poeta nordvietnamita che ha trascorso, a più riprese, ventisette anni come prigioniero politico dei regimi comunisti del Vietnam, subendo torture e umiliazioni, prima di essere rilasciato e autorizzato a unirsi alla grande comunità vietnamita d'oltremare negli Stati Uniti.

Il padre era un funzionario del tribunale e la madre conduceva una piccola attività commerciale, mentre i fratelli maggiori, in particolare la sorella Hao, gli facevano da insegnanti di letteratura e di lingua francese.

Il 1945 segnò la vittoria dei francesi e la fine delle ostilità, ma nel marzo dello stesso anno i giapponesi presero il potere, provocando la risposta dell’Urss che aiutò militarmente le truppe comuniste di Ho Chi Minh nel nord del Paese.

Thien e la famiglia si trasferìrono in campagna, nel villaggio natale, a causa dei violenti scontri fra le milizie locali e le truppe dei colonizzatori.

Quando nel 1949 la situazione divenne più stabile la famiglia tornò ad Hanoi, dove Thien frequentò scuole private.

Fin da ragazzo, nel 1954 all’età di 15 anni, iniziò a scrivere poesie, e in quello stesso anno che sancì la sconfitta dei francesi, Thien esultò per il ritorno dei rivoluzionari del Viet Minh, l’organizzazione politico miltare di ispirazione marxista leninista per l’Indipendenza del Vietnam fondata da Ho Chi Min.

Ho Chi Min divenne per 25 anni l’espressione della lotta comunista nel conflitto in corso con il Governo anticomunista del Vietnam del sud, alleato degli Stati Uniti.

Nel 1954 la Conferenza di Ginevra sancì la divisione tra la Corea dell nord comunista e quella del sud filo-occidentale, ma non riuscì a pacificare e stabilizzare i territori vietnamiti ma anzi pose le basi per la guerra del vietnam che iniziò nel 1955.

Nel 1956 la famiglia si trasferì ad Haiphong, a circa 100 chilometri da Hanoi, dove Thien contrasse la tubercolosi, a causa della quale i suoi genitori furono costretti a vendere la casa per poter pagare le cure.

I genitori del giovane Nguyen non decisero di emigrare verso sud perchè erano convinti che i comunisti agissero per spirito patriottico e che la loro dottrina politica avrebbe aiutato le fasce popolari più povere.

Fu proprio questo il motivo per cui Thien guardò con entusiasmo a questa nuova ventata di novità, iniziando a venerare  i combattenti rossi (Viet Minh) come eroi.

Nguyen Chi Thien

L’autore si rese presto conto della perfidia e delle violenze scatenate contro la popolazione dai comunisti di Ho Chi Minh, i quali imprigionarono e giustiziarono centinaia di migliaia di oppositori, o presunti tali.

Il poeta ebbe a dire che comparando il regime comunista alla dominazione francese, quest’ultima era in confronto un paradiso.

Nel 1960 mentre era  insegnante di storia presso una scuola superiore, fece affermazioni sulla guerra russo-giapponese, in seguito al fatto che in un libro di testo era scritto, a causa del revisionismo russo, che l’Unione Sovietica aveva sconfitto l’esercito imperiale del Giappone.

Thien disse invece agli studenti che in realtà erano stati gli Stati Uniti ad ottenere la vittoria grazie alle bombe atomiche sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki.

Per queste dichiarazioni fu fu condannato nel 1961 a tre anni e sei mesi nei cosiddetti campi di rieducazione del regime comunista con l’accusa di fare propaganda antigovernativa, e poi rilasciato nel 1964.

Per sopravvivere fece il muratore,  continuando però a recitare di nascosto per gli amici intimi le poesie che aveva composto mentalmente durante la detenzione, e proseguendo fino al 1966, anno in cui fu nuovamente arrestato.

I suoi versi poetici furono infatti considerati politicamente irriverenti e gli costarono una nuova condanna, senza alcun processo, a undici anni e cinque mesi di reclusione da trascorrere nei famigerati campi di lavoro.

Nel 1977, due anni dopo la caduta di Saigon, Thien e altri detenuti politici furono scarcerati perché il regime aveva bisogno di spazio per imprigionare gli Ufficiali della Repubblica del Vietnam sconfitti e catturati dall’esercito cinese che aveva invaso le regioni di confine.

Thien che fino a quel momento non aveva potuto scrivere su carta le sue poesie, affidandosi solo alla sua memoria, ne approfittò per annotarle.

Lo fece a casa del nipote, la cui moglie era imparentata con il Maggiore generale Quang Phong, direttore del Dipartimento di sicurezza nazionale responsabile della cultura.

La casa era quindi un luogo tranquillo e non sottoposto a controlli polizieschi, il che gli permise di scrivere, all’insaputa della moglie del nipote e nei momenti in cui lei era assente, un corposo manoscritto che nascose nel doppio fondo di un armadio costruito dal nipote falegname.

Il 18 luglio 1979 si recò all’Ambasciata britannica di Hanoi con il manoscritto che conteneva 400 poesie e i diplomatici del Ministero degli esteri inglesi che lo accolsero gli promisero che avrebbero fatto uscire dal Paese i suoi scritti.

All’uscita dall’Ambasciata Thien trovò gli agenti della Polizia segreta comunista che lo aspettavano fuori dal cancello per arrestarlo.

In precedenza Thien aveva chiesto aiuto alla Chiesa ma gli fu risposto che loro non facevano politica e quindi, pur amandolo molto, non avrebbero potuto fare nulla per lui.

La sua prima scelta per la consegna del manoscritto fu l’Ambasciata francese, ma dopo un sopralluogo Thien constatò la difficoltà di intrufolarsi e decise quindi di optare per un’altra Ambasciata, quella britannica.

Il regime lo imprigionò nuovamente per altri sei anni nel carcere di “Hoa Lo” ribattezzato ironicamente dai prigionieri con il termine di “Hanoi Hilton”, per indicare un albergo a cinque stelle, poi per ulteriori sei anni in altre prigioni del Vietnam settentrionale.

Nel frattempo le poesie che l’Ambasciata inglese aveva fatto pervenire in Occidente furono tradotte da Huynh Sanh Thong dell’Università di Yale e riunite in un’opera intitolata “Flowers of hell”, che vinse l’International Poetry Award a Rotterdam nel 1985.

Amnesty International lo adottò come prigioniero di coscienza nel 1986.

Dopo 12 anni di prigionia Thien fu scarcerato e si stabilì ad Hanoi, dove fu sempre tenuto in stretta osservazione dalle autorità comuniste.

Anche la comunità internazionale vigilò su di lui fino al 1955, anno in cui gli fu permesso di emigrare negli Stati Uniti, grazie all’interessamento di Noboru Masuoka, un colonnello dell’aeronautica militare in pensione che era stato arruolato dopo l’internamento nel campo di Heart Mountain per giapponesi americani nel 1945.

Thien visse in Virginia, nella casa di suo fratello, Nguyen Cong Gian, che non vedeva da 41 anni, riabbracciando anche la sorella Nguyen Thi Hoan.

Nel 1998 il Parlamento internazionale degli scrittori gli concesse una borsa di studio di tre anni in Francia.

Thien scrisse un libro intitolato “Hoa Dia Nguc” componendo a memoria le 300 poesie che prima, durante la detenzione dal 1979 al 1988, non gli era stato concesso di mettere su carta, pubblicandolo nel 2006 sia in vietnamita che in inglese. 

Visse per tre anni in Francia, dove scrisse “Hoa Lo Stories”, un racconto in prosa delle sue esperienze nelle prigioni comuniste, che venne poi tradotto e pubblicato in inglese con il titolo “Hoa Lo / Hanoi Hilton Stories” da Yale Southeast Asia Studies nel 2007.

L’autore ci ha raccontato che la cosa più terribile durante la detenzione durata quasi tre decenni non fu l’isolamento, oppure il freddo della sua cella, nella quale veniva spesso incatenato nudo, e neppure il caldo torrido dell’estate o le catene arrugginite che gli piagavano le gambe, infettandole, e neanche la fame incessante, ma la totale mancanza di accesso alla parola scritta.

Gli erano vietati infatti i libri e giornali, così come la carta e le matite, senza le quali il poeta era costretto ad imparare a memoria ogni singola parola delle sue composizioni letterarie.

Thien continuò comunque a “scrivere” mentalmente e ad immagazzinare nei meandri della sua memoria le proteste, le canzoni, le circa 700 poesie, composte e modificate a memoria.

Nguyen Chi Thien

Dopo aver completato un ciclo di conferenze in Europa sulla realtà degli anni trascorsi nella prigione di Hoa Lo, tornò a Orang County, detta Little Saigon, in California, dove prestò il giuramento per la cittadinanza americana nel 2004.

Nguyen Chi Thien è morto il 2 ottobre 2012 dopo lunga malattia.

L’autore ci ha insegnato che la forza della libertà passa attraverso la poesia, che lui ha improntato all’essenzialità della parola, senza piegarsi davanti a niente, per ricordarsi della sua stessa umanità perfino in quell’inferno dei morti viventi che è stato il regime comunista.

A Thien venne offerta la libertà se avesse firmato un documento preparato dai perfidi aguzzini comunisti in cui era scritto he Ho Chi Minh era un eroe e che il comunismo era un Paradiso.

Concludo con un brano della sua raccolta di poesie, intitolata “Fiori dall’inferno”, una poesia composta durante la prigionia, nel 1970:

La mia poesia non è mera poesia, no, ma è il suono dei singhiozzi di una vita,

il frastuono delle porte in una buia prigione, 

il respiro sibilante di due poveri polmoni sfiniti,

il tonfo della terra sballottata per seppellire i sogni,

il battito dei denti che battevano dal freddo,

il grido di fame da uno stomaco che si contorce selvaggiamente,

la voce inerme davanti a tanti naufragi.

Tutti i suoni della vita vissuta a metà,

di morte mezzo morto — niente poesia, no.

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