lunedì 5 settembre 2022

Luigi Borghi: criminale partigiano comunista assassino

Nato a Castelmaggiore in provincia di Bologna nel 1914, Luigi Borghi era un operaio della Manifattura Tabacchi, che prestò servizio militare presso il Regio esercito, passando poi dopo l’Armistizio del 1943 nei ranghi della Guardia nazionale repubblicana, il corpo di polizia interna e militare della Repubblica sociale di Mussolini.



La sua istruzione si fermò alla quinta elementare ed era caratterizzato dai modi rozzi e nevrotici, così come da due baffetti appena accennati e da capelli neri e crespi, con una inconfondibile attaccatura alta.

Fece parte anche del Feldkommandantur di Bologna, il comando militare tedesco da cui dipendevano le SS italiane.

Verso la fine dell’estate del 1944 fu catturato dai gappisti partigiani del comandante Franco Franchini, alias “Romagna”, un carpentiere imolese messo a capo del gruppo locale per le sue attitudini militari.

Franchini fu poi trasferito nel distaccamento di Castel Maggiore, a comandare la 7° Brigata GAP comunista Gianni Garibaldi, a cui fu dato il nome di Brigata Paolo.

Borghi stava per essere fucilato, ma si mise a singhiozzare, umiliandosi e implorando pietà, chiedendo a gran voce di essere integrato nelle file partigiane.

Sapendo che Borghi aveva un fratello comunista e un altro socialista, i partigiani decisero di graziarlo, provocando la sua immediata trasformazione da camerata a compagno.

Da quel momento Borghi iniziò la sua carriera di partigiano, palesandosi però come individuo indiscplinato e inaffidabile.

Durante il suo primo scontro a fuoco, a Sabbiuno di Castelmaggiore, nell’ottobre 1944, morì il comandante “Romagna”, colpito alla schiena da una fucilata, e ci sono forti sospetti che a colpirlo sia stato proprio Borghi.

Il nome di battaglia di Borghi era “Ultimo”  a causa del fatto che fu l’ultimo in ordine cronologico ad aggregarsi alla 7° Gap di Castelmaggiore, ma i suoi complici comunisti preferivano chiamarlo “Gino”, oppure “Maurizio” o ancora “Giordano”.

Borghi aveva un motto che ripeteva a tutti continuamente :

Quand ch’us va in tal cà b’sogna mazè tot, nec e gatt” (Quando si entra in una casa bisogna ammazzare tutti, anche il gatto!".

S. Ballardini
Con questa filosofia di vita, improntata all’omicidio e al disprezzo per la vita umana, il feroce partigiano comunista fu responsabile, insieme al “compagno” Sauro Ballardini, detto “Topo”, di una lunga scia di sangue.

A proposito di quest’ultimo, si veda un mio post al link : Ballardini

Oltre alla coppia Borghi-Ballardini, la Gap di Castelmaggiore era costituita anche da due donne, entrambe contadine, Germana Bordoni di anni 20 e Carolina Malaguti, alias “Prima” di anni 21, non meno feroci della coppia maschile.

Fra i tanti omicidi commessi dal partigiano comunista figura quello di Giuseppe Forti, proprietario dell’azienda agricola “Ringhiera” di Bentivoglio, e di suo figlio Romeo.

Infatti Borghi e la sua accolita delinquenziale si recarono a Bologna, in via Santo Stefano 48, dove abitava la famiglia Forti e dopo aver individuato Giuseppe, di 72 anni, lo freddarono nell’atrio del palazzo con tre colpi di pistola, poi prelevarono Romeo e lo portarono via.

Il mattino seguente il suo cadavere fu ritrovato steso a terra crivellato di colpi in via San Petronio Vecchio, a poca distanza da casa sua.

Nel dopoguerra i comunisti e il loro partigianato assassino avevano come scopo quello di ripristinare lo stesso clima di terrore che avevano imposto vent’anni prima, nel periodo cosiddetto del biennio rosso, durante il quale misero a ferro e  fuoco l’intera penisola.

Quel fascismo che in precedenza li aveva fermati, e che aveva ripristinato la Pace e il benessere, dopo la guerra non c’era più, e riprese quindi forza l’idea espressa dalle bande comuniste di trasformare l’Italia in un satellite sovietico, con tanto di guerra alla borghesia e di collettivizzazione delle terre agricole, proprio come nella Russia di Stalin.

Borghi impazzava per i territori della bassa bolognese in sella ad una motocicletta rossa, con la mitraglietta a tracolla, e lasciava dietro di sé una scia di morti ammazzati.


Borghi è l’autore materiale anche dell’omicidio di Leandro Arpinati, ex podestà di Bologna che durante il suo mandato di Sindaco realizzò diverse opere pubbliche, come lo Stadio Littoriale, oggi Stadio Dallara, a quel tempo uno dei più grandi in Europa, la Clinica psichiatrica, l’Ospedale Pizzardi, il raddoppio della linea del tram, l’edilizia popolare, la funivia di San Luca, ed altre opere.

Arpinati era una delle voci del dissenso contro l’operato dei gerarchi fascisti, contro i quali ebbe a scontrarsi al punto che Mussolini gli impose il “confino” a Lipari, seguito poi dal “domicilio coatto” nella sua casa di Malacappa, nella Bassa bolognese.

Da quel momento Arpinati operò per la protezione degli antifascisti, pur rimanendo anticomunista, al punto che si incontrò con il comandante Franchini alias “Romagna” (che poi sarà ucciso da “Ultimo”), il quale gli promise che nessuno lo avrebbe toccato, proprio per ringraziarlo del suo impegno.

Quando il motofurgone che trasportava Borghi e altri partigiani oltrepassò il cancello della proprietà di Arpinati, verso mezzogiorno del 22 aprile 1945, si trovò di fronte proprio a lui, che stava passeggiando insieme a Torquato Nanni e a Mario Lolli, il segretario dell’ex Podestà.

Una delle due partigiane che componevano il drappello criminale si mise istericamente a strillare : “Dai dai sparagli sparagli!

Torquato Nanni si frappose fra Borghi e l’amico, nel tentativo di calmare gli animi, ma fu steso da un violento colpo ala nuca inferto con il calcio del fucile da uno dei partigiani.

A quel punto Borghi, “Ultimo”, sparò con il suo sten (mitra a canna corta di fabbricazione inglese) al volto di Arpinati, devastandogli il viso e uccidendolo all’istante.

Le due pasionarie partigiane intervennero nuovamente, mettendo a nudo la loro immensa carica di odio, tipica delle bande comuniste, urlando :

Dai dai ammazzate anche gli altri!

Una di loro sparò un colpo alla nuca di Nanni, finendolo, mentre glia ltri partigiani infierirono sul cadavere di Arpinati bersagliandolo di colpi.

Il segretario Mario Lolli tentò la fuga correndo verso la casa, ma fu raggiunto da diversi proiettili alla schiena, e ancora una volta, una delle due partigiane con il fazzoletto rosso al collo si mise a urlare:

Ammazzalo, finiscilo!

Quando fu di fronte a Giancarla, la figlia 21enne di Arpinati, “Ultimo” le lanciò fra le gambe una bomba a mano che fortunatamente non esplose, poi iniziò insieme al gruppo a depredare i cadaveri, portando via orologi, portafogli e altri oggetti.

A proposito di Arpinati, si veda un mio post al link : Arpinati

Lo stesso giorno, il manipolo di criminali assassini della Brigata comunista partigiana Paolo si recò a Bentivoglio, dove uccise barbaramente  Serafino Zoni, di 48 anni, milite della Guardia repubblicana, e i fratelli Luigi e Rino Ramponi, rispettivamente di 41 e 39 anni,gettando poi i cadaveri in una buca anticarro.

Dopo la strage i partigiani si recarono nell’abitazione di Zoni minacciando madre e figlio perchè consegnassero loro il denaro e i libretti di risparmio.

Nel corso delle indagini su queste uccisioni sia la vedova di Zoni che il figlio testimoniarono ai Carabinieri che due dei sequestratori del familiare ucciso erano Luigi Borghi e Carolina Malaguti.


In occasione del successivo processo istituito nel 1952, un altro testimone, tale Arturo C., identificò ”Ultimo” e Ballardini, il suo degno compare, come due dei tre partigiani che in località Paleotto a Funo di Argelato scortavano i tre prigionieri verso il luogo dell’esecuzione.

Nonostante i crimini commessi, la sociopatica comunista e criminale Carolina Malaguti fu poi inserita nella vulgata resistenziale del dopoguerra, zeppa di falsità e di inganni ad opera dell’appparato disinformatore delle sinistre, come eroico esempio di partigiana, e decorata con medaglia di bronzo al Valor Militare.

Due giorni dopo l’eccidio di Malacappa e cioè il 24 aprile 1945, Luigi Borghi si recò, alla guida del famigerato autocarro, in Via Fondazza 53 a Bologna, dove abitava Luigi Trevisi, di 57 anni, capo tecnico della Manifattura Tabacchi.

Con lui aveva uno “screzio” da regolare in quanto il tecnico aveva questionato con la moglie del partigiano, Iside Bussolari, 31enne operaia della Manifattura, e non le aveva concesso alcuni permessi.

Borghi e gli altri partigiani dopo aver saccheggiato l’appartamento, ripetendo lo squallido itinerario dello sciacallaggio comunista, sequestrarono Trevisi e lo portarono in Piazza Maggiore esibendolo come trofeo fino alla sera, e trattenendolo poi a Castelmaggiore al loro rientro in sede.

Il gruppo si recò quindi a Trebbo di Reno, per prelevare il cantoniere comunale Armando Bonazzi, considerato da “Ultimo” una spia dei tedeschi, nonostante il fatto che costui non avesse nemmeno aderito al fascismo di Salò.

Sia Trevisi che Bonazzi vennero trucidati in località Noce, vicino al fiume Reno e i loro cadaveri crivellati di proiettili vennero scoperti il giorno successivo.

I Carabinieri durante le indagni stablirono che i delitti erano da ascrivere alla famigerata banda Borghi, autrice di rapine, estorsioni, razzie, saccheggi, e numerosi omicidi.

Affermarono inoltre che della banda facevano parte, oltre a Borghi detto “Ultimo”, anche Sauro Ballardini, e Carolina Malaguti.

A quest’ultima, nonostante la caratura criminale e il disprezzo per la vita umana, venne conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, e questo la dice lunga sulla affidabilità della vulgata resistenziale propagandata dal PCI nel dopoguerra.

Le ricostruzioni storiche vennero platealmente falsate e plasmate ad uso e consumo della sinistra, la quale cantando “bella ciao” ha costruito a tavolino eroi che non esistevano e nascosto criminali sanguinari colpevoli di aver compiuto stragi ed eccidi di persone innocenti, a guerra finita, spesso per rancori personali o semplicemente per predare i loro averi.

A guerra finita, lo psicopatico partigiano comunista uccise anche Carlo Savoia, un 19enne che era stato squadrista delle Brigate Nere, e Raffaele Calzoni, milite 35enne della Guardia nazionale repubblicana di Baricella, oltre a Loris Busi, fornaio.

Dopo averli trasportati con un camion in aperta campagna i partigiani li falciarono a colpi di mitra e abbandonarono i loro cadaveri in un campo.

Gli omicidi della Brigata Paolo si susseguirono quotidianamente dopo la fine della guerra, in un delirio di onnipotenza criminale in seguito al quale vennero uccisi i sette fratelli Govoni di Pieve di Cento e la moglie di Ido Cevolani, Govannina, massacrati senza pietà.


Insieme a loro i partigiani uccisero i prigionieri prelevati a San Giorgio di Piano:

Bonora Cesarino, il padre Alberto, il figlio Ivo, e Bonora Ugo, Bonvicini Alberto, Caliceti Giovanni, Malaguti Giacomo, Mattioli GuidoPancaldi Guidoe Testoni Vinicio.

I prigionieri vennero prima sottoposti ad un feroce pestaggio, con pugni, calci, bastonate, sevizie e torture, infine strangolati, poi dopo essere stati spogliati dei beni personali furono tutti gettati in una fossa anticarro.

In precedenza l’odio cieco e irrazionale delle bande comuniste partigiane compì un’altra strage, prelevando nella cittadina di Cento le seguenti persone:

Alborghetti Giuseppe, Bonazzi DinoCavallini EnricoCevolani Alfonso, Costa Sisto, la di lui moglie, Adele, e il loro figlio VincenzoMaccaferri VanesMelloni Ferdinando, Moroni Otello,  Tartati Guido, e Zaccarato Augusto.

Guido Cevolani, fratello di Alfonso riuscì a convincere i partigiani a liberare il congiunto, ma tutti gli altri vennero condannati a morte dopo un processo farsa da uno pseudo tribunale partigiano.

Le vittime, dopo essere state depredate dei loro averi, furono tutte strangolate.

Questi episodi criminali costituivano la quotidianità del dopoguerra emiliano, in un crescendo di odio con cui il PCI voleva traghettare l’Italia verso un oscuro destino trasformandola in un satellite sovietico.

L’8 febbraio 1953 i responsabili dei massacri, o perlomeno quelli che la Magistratura bolognese riuscì ad individuare, furono condannati all’ergastolo dai Giudici del Tribunale, ma non fecero nemmeno un giorno di galera, poiché il PCI li fece espatriare in Cecoslovacchia.

I nomi di questi assassini partigiani sono:

Luigi Borghi, alias "Ultimo", comandante del distretto di Castel Maggiore della VII brigata Gap Gianni Garibaldi;

Vittorio Caffeo, alias "Drago", partigiano nella II brigata Paolo;

Vitaliano Bertuzzi, alias "Zampo", partigiano prima nella IV brigata Venturoli Garibaldi, poi nella II brigata  Paolo, in cui era vice comandante di battaglione;

Adelmo Benini, alias "Gino", partigiano nella II brigata Paolo. 

Tra gli indiziati, veri e propri banditi scappati a gambe levate poco prima del processo, figuravano:

Accurso Carlo, Ballardini Sauro, Biondi Enzo, Crescimenti Lodovico, Dardi Arturo, Galuppi Pietro, Marzetti Alberto, Montanari Ivano, Pioppi Arrigo, Vignoli Bruno, Zanardi Remo, Ziosi Fedele.

"Ultimo", insieme a "Moretto" è stato anche l'esecutore materiale dell'omicidio di Laura Emiliani Costa, descritta dai partigiani della Paolo come ipocrita e pericolosa.

Insieme ai partigiani "Moretto", Dino Cipollani e Guido Belletti, dopo averla prelevata dalla sua villa, a Torre di Asìa, nel Comune di San Pietro in Casale, la portarono alla sede del Cln di Argelato.

In questa occasione Luigi Borghi le disse:

"Vè chi è sta faza da fascesta" (Guarda chi c'è qui quest faccia da fascsta".

Poi la caricarono su un auto, e da quel momento Laura Emiliani Costa scomparve nel nulla.

La disinformazione comunista, quella per intenderci che piace tanto all’ANPI, nel suo continuo manipolare i fatti storici, ha dipinto Luigi Borghi non come il sadico criminale che era, ma come eroico combattente e degno rappresentante della nuova gioventù italiana, come risulta dalle sue note, scritte e pubblicate per conto del Comune di Bologna, Dipartimento Cultura, Area Storia memoria, sul sito storiaememoriadibologna.it.

Non solo Borghi, un vero ratto di fogna comunista e partigiano, è stato eletto ad eroe, e proclamato indomito combattente, ma gli è stata anche conferita una Medaglia d’Argento al Valor Militare, confermando che l’apparato resistenziale comunista descritto dalle sinistre con grande enfasi, in realtà si componeva di criminali sanguinari che abusavano del loro potere per compiere omicidi e rapine, con la compiacenza del PCI di Longo e Togliatti.

Ancora oggi le sinistre celebrano il 25 aprile senza la minima vergogna per i numerosissimi crimini commessi dal PCI, loro antesignano, da cui hanno tratto linfa vitale per decenni, salvo poi metamorfizzarsi sotto mentite spoglie.

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Dissenso

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sabato 3 settembre 2022

Zoja Svetova, paladina dei diritti umani nella Russia di Putin

Zoja Svetova è nata a Mosca, in Russia, il 17 marzo 1959, da Zoja Krakhmalnikova e Felix Svetov.

Il nonno paterno, Grigorij Fridljand, famoso storico, venne fucilato da Stalin nel corso delle repressioni del 1937, mentre la nonna conobbe sia il carcere che il confino, così come i suoi genitori, finiti nel mirino dell’apparato comunista.

Nel 1956 il nonno venne riabilitato post mortem, e i suoi libri ripubblicati, ma qualche decennio dopo, nel 1982, fu arrestata anche la mamma di Zoja, anche lei giornalista, in seguito alla nuova legge sulla censura varata dal Cremlino che vietava di pubblicare libri all’estero.

A quel tempo Zoja aveva 23 anni ed era in casa con il figlio di 4 mesi quando il KGB bussò alla loro porta.

Gli agenti perquisirono tutta la casa, poi arrestarono la mamma e la portarono via, con l’accusa di “agitazione e propaganda antisovietiche, mirate al sovvertimento dell’assetto costituzionale sovietico”.

La sua colpa fu quella di aver compilato testi a carattere religioso in raccolte cristiane che batteva a macchina e che venivano successivamente diffuse come samizdat e pubblicate da “Posevil”, una casa editrice dell’emigrazione russa in Germania.

Fu condannata a un anno di carcere e sei anni di confino in Siberia e si ritrovò così, insieme al papà di Zoja, Feliks Svetov, il quale nel 1985 aveva avuto la stessa pena per aver firmato appelli in sostegno di Andrej Sacharov, entrambi nel villaggio siberiano di Ust-Koksa sui monti Altai, a seimila chilometri da Mosca.

Zoja potè rivedere i suoi genitori solamente nel 1987 quando Michail Gorbacev concesse l’amnistia a tutti i prigionieri politici.

Da allora Zoja Svevtova decise di diventare giornalista e difensore dei diritti umani.

Si è sposata con Viktor Dzyadko, con cui ha 4 figli, Anna, Philip, e Timofey, e Tikhon, il più piccolo, che divenne caporedattore di TV Rain, un canale di informazione il quale fu chiuso da Putin, e in seguito a ciò scelse di esiliarsi in Georgia o in Lettonia per sfuggire all’ondata di repressione.

Nel 1982 si è laureata presso l’Istituto Pedagogico Statale di Lingue Straniere “Maurice Thorez” di Mosca.




Dal 1991 al 1993 ha lavorato presso la rivista “Family and School”, sulle cui pagine ha pubblicato alcuni articoli che l’hanno messa nel mirino della FSB, la polizia segreta di Putin.

L’apparato poliziesco del regime russo, in occasione di un ciclo di indagini sull’oligarca Mikhil Khodorkovsky, ha perquisito la casa della giornalista sequestrandole sia l’Pad su cui lei annotava le sue ricerche di lavoro che altri dispositivi informatici, oltre al telefono  cellulare del marito.

Dal 1993 al 2001 ha lavorato come editorialista per il quotidiano “Russian Thought”.

E’ autrice del libro intitolato “Gli innocenti saranno colpevoli. Appunti di un’idealista”.

Ha scritto molti articoli, pubblicati su testate quali:

Kommersant, Russian Telegraph, Moscow News, Obshchaya Gazeta, Novaja Gazeta, Moskovskiye Novosti, Yezhenedelny Zhurnal, e su riviste come: Spark, Weekly magazine, e Itogi.

I suoi articoli sono stati tradotti e pubblicati nelle edizioni francesi di France Soir, Le quotidien (Lussemburgo), La Depeche du midi, e Quest-France.

Dal 1994 al 1999 è stata corrispondente dell’Ufficio moscovita di RFI (Radio France Internationale), l’emittente radiofonica Statale francese che, trasmettendo 24 ore al giorno in 12 lingue diverse, ha un seguito di 37 milioni di ascoltatori nel mondo.

Dal 1999 al 2001 è stata corrispondente dell’Ufficio moscovita del quotidiano di sinistra “Liberation”, fondato nel 1973 da Jean-Paul Sartre e Serge July.

Dal 2000 al 2002 ha lavorato in qualità di esperta e consulente presso la Fondazione Soros sui programmi relativi allo sviluppo del diritto, della magistratura e del tema dei diritti umani in Russia.

Dal 2001 al 2003 ha lavorato presso il quotidiano moscovita “Novye Izvestia”, critico nei confronti del Governo di Vladimir Putin e sulla sua influenza negativa per le libertà democratiche dei cittadini russi.

Dal 2002 al 2004, Zoja Svetova è stata rappresentante dell'organizzazione internazionale “Reporters sans frontières” a Mosca, sostenendo i giornalisti incarcerati in relazione alle loro attività professionali.

Dal 2003 al 2004 ha collaborato come inviato speciale del quotidiano russo “Russkiy Kurier”, fondato da Igor Golembiovsky, ex giornalista di Novye Izvestiya, licenziato perché troppo critico nei confronti del Governo retto da Vladimir Putin.

Ha vinto il premio giornalistico "Arbitrariness in the Law" nel 2003 nella "Nomination per la violazione dei diritti individuali" e, nello stesso anno, è stata Vincitrice del Premio nazionale della stampa dell'Unione dei giornalisti della Federazione russa e di Amnesty International per i diritti umani e il rafforzamento della società civile in Russia.

 

Le è stato consegnato il Diploma del Premio Andrei Sacharov “Per il giornalismo come atto”, nel 2003 e nel 2004.

 

Dal 2004 al 2005 è stata redattore del dipartimento di politica interna per il giornale “Russkiy Kurier”.

Dal 2008 al 2016 ha lavorato preso la Public Monitoring Commission (PMC) di Mosca presso l’emittente “Radio Free Europe/Radio Liberty”.

Ha potuto così monitorare e supervisionare la situazione generale della città di Mosca in relazione alle dinamiche dei diritti umani, ma ha poi dovuto lasciare l’incarico per motivi legali, cadidandosi al Comitato di sorveglianza della Repubblica di Mordovia.

La sua candidatura è stata però respinta poiché l’FSB si è opposta.

Si è così dedicata ad effettuare frequenti visite di controllo presso la prigione moscovita di Lefortovo, la quale dipende ufficialmente dal Ministero della Giustizia, ma in realtà obbedisce ai dictat dell’FSB.



Carcere di Lefortovo, a Mosca

Durante le sue visite Zoja ha scoperto molte violazioni dei diritti umani, constatando che molti dei prigionieri non avevano neppure un avvocato, oppure non era loro permesso di incontrarlo.

Nel 2009 ha vinto il Premio Gerd Bucerius Free Press of Eastern Europe Award e, nel dicembre dello stesso anno, è diventata editorialista per la rivista The New Times.

Nel 2010 ha vinto il premio Moscow Helsinki Group Human Rights Award.

Il suo impegno per la difesa dei diritti umani si è palesato nel 2014 firmando un appello in cui si chiedeva il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina.

Ha vinto il premio pubblicistico “Libmission 2018” nella nomination "Per il coraggio nel sostenere i valori liberali", dopo aver pubblicato una serie di articoli sui portali MBH.media e Radio Liberty, dedicati alle persone che sono state incarcerate dal regime.

Nel 2020 il Presidente francese Emmanuel Macron ha conferito a Zoja Svetova il titolo di Cavaliere dell’ordine della Legion d'Onore.

Al di là delle date che scandiscono la sua carriera giornalistica e la sua biografia, va detto che occorre citare Zoja soprattutto per la sua incommensurabile statura morale, che le ha consentito di non piegarsi alla dittatura di Putin, nel cercare sempre di difendere i deboli e gli oppressi.

Ha preso a cuore molti casi di ingiustizia del regime contro i dissidenti, tra cui quello del regista ucraino Oleg Sentsov, condannato in Russia nel 2014 a venti anni di prigione con l'accusa di terrorismo, perché imputato di complottare per far saltare in aria una statua di Vladimir Lenin in Crimea.




Zoja ha affermato che non esisteva alcuna prova di questo presunto crimine, ma il regista fu ugualmente incarcerato perché si era dichiarato contrario all’annessione della Crimea da parte della Russia e palesando molto attivamente le sue simpatie verso il popolo ucraino, adoperandosi per facilitare il ritiro del loro personale militare intrappolato nelle basi della penisola, e fornendo loro cibo e rifornimenti.

Detenuto per oltre un anno nella prigione moscovita di Lefotovo, tristemente famosa per essere stata un luogo dell’orrore staliniano, nella quale Sentsov fu sottoposto a brutali torture, senza però mai dichiararsi colpevole, venne infine deportato da Putin in un gelido gulag degli Urali polari, nella Siberia centro settentrionale, a Labytnangi, nel circondario di Jamalo-Nenec.

Il suo caso ha mobilitato la solidarietà internazionale che ne ha chiesto il rilascio a più riprese, ma il regista è stato rilasciato solo nel 2019 nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia che prevedeva la liberazione di 35 detenuti per parte.

Zoja Svetova si è schierata anche contro il trattamento ricevuto dall'attivista e ricercatore careliano Yuri Dmitriev, il quale nel corso di 30 anni di studi e ricerche ha scoperto 236 fosse comuni di persone uccise durante l'era staliniana.

Dopo i ritrovamenti, i luoghi degli eccidi sono diventati siti commemorativi delle vittime delle repressioni comuniste, a molte delle quali Dmitriev è riuscito a dare un nome cognome.

Il ricercatore ha pubblicato anche i nomi dei carnefici dell’NKVD, i cui discendenti oggi lavorano nelle stesse strutture metamorfizzate (FSB), che sono state il fulcro dell’orrore staliniano.

Questo è il motivo per cui l’apparato poliziesco di Putin non vuole che si sappiano i nomi dei criminali che hanno commesso tali orrori, chiudendo la bocca a Dmitriev con una condanna, nel dicembre 2021, a 15 anni di detenzione.

Ecco un mio articolo su di lui, al seguente link :  DMITRIEV

Zoja Svetova ha anche affermato che molti casi di violazioni dei diritti umani non vengono mai riportati dai media, compresi quelli delle molte persone che sono incarcerate nonostante siano gravemente malate.

Putin ha trasformato la Giustizia russa in uno strumento di potere, docile e manipolabile, asservito ai suoi dictat e alle sue esigenze.

I Giudici sono diventati il mezzo con cui la Magistratura russa compiace il potere politico, rappresentato da Putin, usando le condanne come un manganello per colpire le vittime designate, in un ciclo perverso nel quale le assoluzioni degli imputati non arrivano all’uno per cento del totale dei processi.

Quando vengono procssati coloro che sono ritenuti da Putin nemici del Potere, gli stessi giudici ricevono chiare indicazioni su quale verdetto emettere e che durata debba avere la pena.

Solamente nei casi in cui sia presente una giuria popolare si riscontra un aumento delle assoluzioni pari al 15 %, ma non di rado gli elementi che compongono la Giuria vengono scelti tra coloro che fanno indirettamente parte dell’apparato repressivo stesso.

Dal 22 marzo 2022 la giornalista è impossibilitata a scrivere articoli, a seguito della feroce repressione putiniana, per mezzo della quale i giornalisti sono imbrigliati in una ferrea censura che proibisce loro di fornire informazioni, soprattutto sulla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, pena una condanna a 15 anni di carcere.

Anche i singoli cittadini non possono protestare contro la guerra, nemmeno pacificamente, come comprovano gli oltre mille arresti settimanali eseguiti dalla FSB nelle città russe.

Dopo tre o quattro fermi di polizia i recidivi rischiano un processo penale e una condanna a quattro anni di carcere.

Zoja ha perso il marito nel 2020 e passa le giornate prepando fascicoli e inchieste per il futuro, per quando avrà la libertà di poter pubblicare i suoi scritti.

Nel 2022 Putin ha obbligato il giornale Novaja Gazeta, su cui scriveva Zoja, e prima di lei Anna Politkovskaja e Anastasia Baburova, a sospendere le pubblicazioni, uccidendo definitivamente il giornalismo indipendente in Russia, e facendo retrocedere il Paese ai tempi bui del totalitarismo comunista dell’era sovietica.

Vladimir Putin non è più la guida di un Paese democratico o di un Paese autoritario, ma un dittatore che spaventa il mondo intero attraverso la minaccia nucleare.



La sua arroganza è pari solo alla sua ferocia, e lo dimostrano le aggressioni della Cecenia, completamente rasa al suolo, e della Georgia, oltre all’invasione della Crimea e del Donbass, fino all’ultima manifestazione di onnipotenza con cui ha mosso il suo esercito contro lo Stato sovrano dell’Ucraina.

La repressione della libera informazione ha costretto decine di giornalisti a lasciare la Russia, e l’invasione dell’Ucraina ha aggravato la situazione.

Zoja ha dichiarato che “Oltre cento leggi repressive sono state varate in questi anni e almeno quaranta media indipendenti sono stati dichiarati agenti stranieri”.

Putin è intenzionato a riportare il Paese all’epoca sovietica, fermando la Storia e imponendo il totalitarismo e la censura, privando le persone della libertà e sacrificando la Pace.




Il motivo per cui Putin odia l’Ucraina va riceracato proprio nel fatto che l’intera cittadinanza di quel paese sovrano ha deciso con determinazione di essere indipendente, fin dai tempi della Rivoluzione arancione, e cioè dalle azioni di protesta del 2004-2005 seguite poi nel 2014 dalla rivolta di Piazza Maidan.

Putin odia ferocemente il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che si è frapposto ai suo piani egemonici, e intende radere al suolo l’intero Paese  e sostituirlo con una marionetta del Cremlino, esattamente come ha fatto con Cecenia e Crimea.

Per realizzare i suoi piani, il sociopatico russo si è contornato di agenti dei servizi speciali, eredi di quei cekisti che cavalcarono il terrore staliniano, affidando a loro la gestione delle forze di polizia, del sistema giudiziario e di quello carcerario, in un carosello di abusi che si sono succeduti in modo esponenziale dalla sua ascesa al potere.

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Dissenso

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