Giuseppe Fanin nacque nel 1924 nella borgata Tassinara, poco fuori San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna, dove la famiglia, di fede cattolica, si trasferì dal paese veneto di Sossano nel 1910.
Giuseppe Fanin |
Prestò il servizio militare della Repubblica Sociale Italiana nella Divisione San Marco, come artigliere, e venne inviato in Germania per il relativo addestramento.
Si ammalò di appendicite, per la quale fu operato e gli fu poi permesso di rimanere in convalescenza fino al termine della guerra, grazie soprattutto alla condiscendenza di un ufficiale medico.
Si laureò in Agraria a Bologna nel febbraio 1948 e si fidanzò con Lidia Risi.
Divenne segretario provinciale delle ACLI (Associazione dei Cristiani Lavoratori) e in tale ruolo si impegnò nel proporre al mondo contadino un innovativo progetto di riforma agraria, che introduceva un contratto di compartecipazione individuale, grazie alla quale i coloni avrebbero potuto gradualmente acquistare i poderi, diventandone così proprietari.
Tale progetto venne immediatamente osteggiato dal PCI, che voleva invece ritornare ai concetti espressi nel famigerato biennio rosso del 1919 – 1920 in cui i comunisti erano fautori degli espropri proletari e della collettivizzazione forzata, in applicazione del principio marxista e sovietico secondo cui “la terra non si compra ma si prende con la forza”.
Giuseppe Fanin divenne così il nemico numero uno del partigianato comunista, il quale anche a guerra finita intendeva imporre il modello del PCI a tutti i costi, nel pieno disprezzo della volontà popolare e della Democazia.
Il giovane fu oggetto di pesanti intimidazioni e di tentativi di pestaggio, in seguito ai quali gli venne consigliato da Giovanni Elkan, segretario della DC bolognese, di munirsi di una pistola.
Fanin rispose facendogli vedere un rosario che teneva sempre in tasca.
Il PCI bolognese diede il via ad una serie di agguati contro i sostenitori di Fanin, aggredendo platealmente i contadini cattolici e malmenando le lavoratrici che erano ostili alla leghe rosse.
Con la stessa arroganza, alimentata dalla violenza comunista, la Lega braccianti di San Giovanni in Persiceto, emanazione del PCI, affisse in tutto il paese dei manifesti che avevano lo scopo di insultare i sindacalisti democristiani.
Il testo di quei manifesti era il seguente:
“La mano ossuta degli agrari, appoggiata dagli organi di Governo, stretta a quella dei servi schiocchi tipo Fanin, Bertuzzi e Ottani, tenta di stendersi di nuovo rapace nelle nostre campagne per dividere i lavoratori e instaurare un regime di sfruttamento e di oppressione poliziesca di tipo fascista”.
La sera del 4 novembre 1948, dopo che Fanin ebbe accompagnato a casa la fidanzata, si avviò in bibicletta verso casa, vero le 21,30, quando fu fermato da un individuo corpulento che lo aveva seguito fino a quel punto.
Il giovane agronomo fu oggetto di una vigorosa sprangata da parte dello sconosciuto, per proteggersi dalla quale ricevette un colpo ad una mano che si fratturò nell’impatto.
Altri due individui, parte di un agguato che evidentemente era stato pianificato e premeditato, balzarono fuori da un cespuglio e iniziarono a colpirlo ripetutamente con sprangate, calci e pugni, spaccandogli il cranio e accanendosi con ferocia bestiale fino a che il giovane non fu ridotto in fin di vita, poi lo lasciarono agonizzante sul terreno e se ne andarono tranquillamente.
Fanin venne trovato dopo circa mezz’ora da un amico che passava di lì per caso e che lo fece portare all’ospedale di San Giovanni, dove però giunse in stato di coma, morendo sotto i ferri del chirurgo che tentò di salvarlo.
La Democrazia Cristiana accusò apertamente il PCI di aver fomentato un clima di violenza tale da aver prodotto un risulatato così tragico, ma lo squallore comunista si palesò affermando, per bocca di Davide Lajolo, lo squallido vice direttore dell’Unità, l’organo di informazione del PCI, che Fanin era un provocatore.
Il bieco attivista comunista Adorno Sighinolfi fu accusato di istigazione a delinquere dalla Magistratura perché prima del delitto aveva affermato pubblicamente:
“Fanin è un cristiano crumiro che bisogna far fuori perché è la rovina di noialtri, bisogna accopparlo”.
La macchina del fango comunista palesò la sua essenza criminale delegando al deputato Giancarlo Pajetta il compito di operare uno squallido sciacallaggio sotto forma di comizio, durante il quale l’oratore proclamò che gli aggrediti erano i comunisti, oggetto di campagne di stampa menzognere che sventolavano lo spettro del triangolo della morte in Emilia.
Nel frattempo, il Maresciallo Masala che in seguito alle indagini sull’omicidio stava interrogando il sospettato Gino Bonfiglioli, ex partigiano e segretario del PCI locale, oltre che Sindaco del Paese, ottenne da lui una piena confessione.
Bonfiglioli ammise di essere il mandante dell’aggressione a Fanin, precisando che non ordinò ai sicari di fracassargli la testa, ma solo di “massaggiarlo per bene senza esagerare”.
Lo squallido Sindaco comunista fece i nomi dei tre assassini, tutti braccianti agricoli iscritti al PCI:
1) Evangelisti Renato, di anni 26;
2) Lanzarini Gian Enrico, di anni 22 (l’individuo corpulento che sferrò la prima sprangata alla testa di Fanin);
3) Morisi Indrio, di anni 20.
Al processo contro i tre criminali comunisti il PCI si tenne alla larga, pochè era troppo sconveniente di fronte all’opinione pubblica riconoscere il proprio ruolo di mandante politico, ma squallidamente non ritirò mai la tessera di iscritto al partito a Bonfiglioli.
Giancarlo Pajetta, lo sciacallo che aveva consapevolmente tentato di mistificare l’andamento dei fatti, arringando la folla, fu costretto dalla plateale evidenza di colpevolezza dei comunisti assassini a stare in silenzio, chiudendosi in un omertoso mutismo.Gli imputati furono condannati all’ergastolo dalla Corte di Assise dell’Aquila per omicidio premeditato aggravato, ma in seguito il PCI si appellò all’amnistia Togliatti, chiedendone l’applicazione per i tre comunisti.
La pena venne ridotta a 23 anni di carcere, ma ne scontarono solo 15 grazie al perdono loro concesso dai familiari della loro vittima, Giuseppe Fanin.
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Tratto dal libro:
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