Durante la seconda guerra mondiale, durante le operazioni
belliche, fu disposto dai comandi militari italiani che la 1° Divisione
d’Assalto “M”, Legione Tagliamento venisse spostata e dislocata nel territorio
bresciano, in particolare nella Val Camonica.
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Il suo compito era quello di contrastare le formazioni
partigiani attive nell’area, che minacciavano l’integrità delle linee di
comunicazione della Wehrmacht, le Forze armate tedesche, e di presidiare i
cantieri della Todt, l’organizzazione di costruzioni che operava nei territori
a fianco dell’esercito tedesco.
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Il 26 aprile 1945 un gruppo di militari della RSI
(Repubblica Sociale Italiana) che presidiavano la località “Cantoniera della
Presolana”, un valico alpino in provincia di Bergamo, al comando del
Sottotenente Roberto Panzanelli, venne a sapere attraverso le comunicazioni
radiofoniche della resa tedesca e italiana, e per questo motivo decise di
lasciare il presidio e di raggiungere Bergamo.
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I militari si incolonnarono, al seguito di Alessandro
Franceschetti, l’albergatore presso cui i militi erano alloggiati al Passo
della Presolana, che li precedeva sventolando una bandiera bianca in segno di
resa.
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Quando il gruppo arrivò nel paese di Rovetta, nella Val
Seriana a circa quaranta chilometri da Bergamo, deposero le armi e si
consegnarono al Comitato di Liberazione Nazionale locale.
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In questo frangente stipularono accordi per sancire la
loro posizione di prigionieri di guerra, e fu siglato un documento a garanzia
dei prigionieri, firmato e sottoscritto da tutte le componenti, a partire dal
Sottotenente Panzanelli, ai rappresentanti del CLN, nella persona del Parroco
Don Giuseppe Bravi, per finire con il Maggiore Pacifico ed altri.
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Dopo la firma dell’accordo i prigionieri furono trasferiti
nei locali dele scuole elementari di Rovetta in attesa di essere consegnati al
comando alleato.
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Il giorno 28 aprile (lo stesso giorno dell’omicidio di
Mussolini) però, un gruppo di partigiani che appartenevano alla 53a Brigata
Garibaldi Tredici Martiri, alla Brigata Camozzi e alle Fiamme Verdi,
prelevarono il gruppo di militi dalle scuole elementari e li scortarono a piedi
verso il cimitero del paese.
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Durante il percorso uno dei prigionieri, Fernando Caciolo,
riuscì a scappare e a nascondersi nella casa di Don Bravi per circa tre mesi,
prima di fare ritorno al suo paese di origine, ad Anagni, nel Lazio.
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Il sottotenente Panzanelli protestò con i partigiani,
esibendo il foglio in cui era siglato l’accordo e le garanzie per il suo gruppo
di militi, ma i partigiani glielo strapparono e calpestarono con disprezzo.
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Giunti al cimitero i partigiani assassini si disposero a
formare due plotoni di esecuzione, e fucilarono 43 prigionieri compresi fra i 15
e i 22 anni di età.
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Ne furono risparmiati solo tre, a causa della loro giovane
età :
Cesare Chiarotti di 14 anni, Sergio Bricco di 15 e Enzo
Ausili di 16.
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I partigiani scoprirono che uno dei militi era figlio di
Edvige Mussolini, sorella di Benito, e per questo motivo lo obbligarono ad
assistere alla fucilazione di tutti i suoi commilitoni prima di essere a sua
volta fucilato.
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Così ancora una volta i partigiani si macchiarono del
sangue di vittime innocenti, ad armi deposte, confermando la ferocia che identificava
e distingueva le formazioni assassine e la loro indubbia vigliaccheria.
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Ecco l’elenco delle vittime :
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ANDRISANO
Fernando, anni 22
AVERSA Antonio,
anni 19
BALSAMO Vincenzo,
anni 17
BANCI Carlo, anni
15
BETTINESCHI
Fiorino, anni 18
BULGARELLI Alfredo,
anni 18
CARSANIGA
Bartolomeo Valerio, anni 21
CAVAGNA Carlo, anni 19
CRISTINI
Fernando, anni 21
DELL'ARMI
Silvano, anni 16
DILZENI Bruno,
anni 20
FERLAN
Romano, anni 18
FONTANA Antonio,
anni 20
FONTANA Vincenzo,
anni 18
FORESTI
Giuseppe, anni 18
FRAIA Bruno, anni
19
GALLOZZI
Ferruccio, anni 19
GAROFALO
Francesco, anni 19
GERRA Giovanni,
anni 18
GIORGI Mario,
anni 16
GRIPPAUDO
Balilla, anni 20
LAGNA Franco,
anni 17
MARINO Enrico, anni 20
MANCINI Giuseppe, anni 20
MARTINELLI Giovanni, anni 20
PANZANELLI Roberto, anni 22
PENNACCHIO Stefano, anni 18
PIELUCCI Mario, anni 17
PIOVATICCI Guido, anni 17
PIZZITUTTI Alfredo, anni 17
PORCARELLI Alvaro, anni 20
RAMPINI Vittorio, anni 19
RANDI Giuseppe, anni 18
RANDI Mario, anni 16
RASI Sergio, anni 17
SOLARI Ettore, anni 20
TAFFORELLI Bruno, anni 21
TERRANERA Italo, anni 19
UCCELLINI Pietro, anni 19
UMENA Luigi, anni 20
VILLA Carlo, anni 19
ZARELLI Aldo, anni 21
ZOLLI Franco, anni 16
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Per anni la responsabilità è stata addossata
principalmente a un misterioso agente al soldo dei servizi segreti britannici
(Soe) attivi sul territorio bergamasco, tale Paolo Podujie, conosciuto con il nome di battaglia di “il
Moicano”.
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Secondo
quanto scritto da Grazia Spada nel suo libro “Il Moicano e i fatti di Rovetta
” invece, la responsabilità materiale sarebbe da ascrivere ai partigiani
socialisti della brigata “Camozzi” di Gustizia e Libertà, che in quei giorni
avevano il controllo di Rovetta.
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Premetto che Rovetta
venne “ufficialmente liberata” il 1 maggio 1945.
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Nel 1946 fu aperto un
procedimento penale in cui vennero indagati i responsabili della strage, tra
cui Paolo Poduje, capo della 53esima brigata e ritenuto il maggiore
responsabile dell’eccidio.
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La sentenza del
Tribunale di Bergamo, che arrivò nel 1951, fu oscena :
venne infatti dichiarato dai Giudici di Bergamo che
non si doveva procedere nei confronti degli imputati, poiché il fatto
(l’eccidio) avvenne tre giorni prima della liberazione della città, quindi non
costituiva un crimine di guerra ma una semplice azione bellica.
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Esattamente decretava il non luogo a procedere in virtù del fatto che :
“Il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945,
firmato da Umberto di Savoia, in un unico articolo dichiarava non punibili le
azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”.
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In pratica le “toghe rosse” bergamasche non
ritennero che fosse un atto criminale quello di trucidare a sangue freddo 43
ragazzini disarmati, arruolati da poco, che non avevano mai partecipato ad
azioni di guerra, e che si erano comunque arresi.
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Dell’eccidio fino ad oggi nessuno ha mai chiesto
scusa o ha dimostrato pentimento, e nemmeno si è voluto riconoscere come pagina
buia della Resistenza questo gravissimo fatto.
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L’Anpi ha taciuto per decenni, così come l’Istituto
storico della Resistenza, oppure coloro che oggi chiedono di vietarne la
commemorazione, palesando un “disprezzo antifascista” che va oltre l’umana
razionalità, sconfinando in un bieco odio di parte e nella mistificazione di
partito.
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Il Parroco, Don Bravi, ha prima promesso salva la
vita a questi ragazzi, poi ha permesso che venissero trucidati, senza che
nemmeno la Curia poi, in futuro, prendesse atto di tale barbarie.
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Non una scusa, non un momento di riflessione, ma
solo falsità e silenzio su un fatto di sangue efferato compiuto su ragazzini
innocenti, vittime della Storia che al momento indossavano la divisa per così
dire “sbagliata”.
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Tornando ai responsabili, occorre dire che l’enorme mole letteraria
sull’argomento è divisa e contradditoria, almeno per quanto riguarda le tesi
della scrittrice Grazia Spada
sopracitata.
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Molti autori indicano come responsabili dell’eccidio il già citato “Moicano”,
insieme a :
“Lanfranch”,
Fomoni detto “Walter
” da Ardesio, “Fulmine” da
Costavolpino, “Cascio>” da Costavolpino, Rossi “Buchi” da
Castione della Presolana, con il concorso esplicito del maggiore Pacifici, già
della Sussistenza del disciolto esercito regio.
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Rimane comunque il fatto che forze partigiane assassine si
siano evidentemente contese il controllo del territorio, arrogandosi il diritto
di decidere della vita di ragazzini dell’età compresa fra i quindici e i
vent’anni, senza che alcuno di questi “eroici” comunisti o socialisti che
fossero, si sia mai degnato di profferire una sola parola di pietà o di scuse
al riguardo.
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Onore dunque alle vittime di Rovetta, che continueremo a
commemorare e a ricordare.
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Dedichiamo loro un pensiero ed una preghiera amorevole, in
vece del silenzio molto poco cristiano espresso dal Clero e dai suoi componenti
fino ad oggi.
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Dissenso
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