Nella Cina comunista del 1989, circa sette mesi prima che
nella Germania dell’Est cadesse il famigerato Muro di Berlino che segnò la fine
della dittatura comunista, gli studenti e gli intellettuali, supportati dal
mondo operaio, iniziarono una serie di proteste e di dimostrazioni che si
protrassero per circa due mesi, dal 15 aprile al 4 giugno.
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La
Primavera democratica cinese, come venne anche denominata la rivolta popolare
contro l’oppressione di un comunismo feroce e sanguinario, fu prodromica ad
altre rivolte negli Stati satelliti dell’Urss
che produssero poi la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della
“guerra fredda” nel 1991..
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Il
regime comunista represse duramente le proteste che inizialmente si svolsero a
Pechino nella famigerata Piazza Tienanmen, e soffocò nel sangue ogni tentativo
di liberarsi dal giogo imposto dai gerarchi cinesi.
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I
carri armati e l’esercito massacrarono i dimostranti, dilaniando i corpi dei
rivoltosi, sparando ad altezza d’uomo e arrestando chiunque si trovasse nella
Piazza per manifestare il proprio dissenso anticomunista.
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I
capi comunisti fecero poi di tutto, negli anni a seguire, per occultare ogni
traccia dell’avvenuto massacro, boicottando anche le manifestazioni
commemorative che si tengono ogni 4 giugno.
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Particolare ingrandito della foto precedente |
Il
Primo Ministro Li Peng, appartenente all’ala più conservatrice dell’apparato
dirigente comunista cinese e “uomo forte” di Deng Xiaoping, una delle massime autorità del Paese, si espresse a
favore di una linea dura come risposta all’occupazione della Piazza da parte
degli studenti, e diede inizio al massacro, prima promulgando la legge
marziale, poi aizzando l’esercito contro la moltitudine di manifestanti.
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Dopo
i massacri Li Peng, che si guadagnò l’appellativo di “macellaio di Tienanmen”,
affermò che la repressione era stata una grande e importante vittoria storica
per il partito comunista.
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Deng
Xiaoping definì le proteste come “un tumulto contro-rivoluzionario” che aveva
l’obiettivo di abbattere lo Stato socialista per creare una Repubblica borghese
dipendente dall’Occidente.
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Ai
nostro giorni ciò che accadde nella “Primavera di Pechino” nelle giornate in cui la libertà del Popolo
cinese fu annegata nel sangue, viene ostentatamente taciuto e definito ufficialmente
dalla autorità comuniste come un semplice “incidente”.
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Il
Partito-Stato-Padrone nel suo ruolo di interprete di un comunismo feroce e sanguinario, ha decretato il silenzio
assoluto sui fatti accompagnato da una fredda determinazione a censurare qualsiasi
riferimento ai massacri di Piazza Tienanmen.
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In
Occidente rimane l’immagine simbolo dell’uomo che indifeso e da solo si parò
davanti ad un carro armato per arrestarne l’avanzata.
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Le
manifestazioni studentesche si allargarono ad altre zone della Cina, e le
manifestazioni coinvolsero almeno quattrocento località e università.
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Decine
di migliaia di studenti e di dissidenti riempirono le strade per manifestare
contro il regime, in particolare in cinquantamila a Tianjin, in ventimila a
Taiyuan e a Shenyang , in diecimila nel Nord-est (nelle piazze di Changchun e
Harbin), in quarantamila a Xi’an il 22 aprile, in diecimila ad Hangzhou (il 4
maggio) che poco dopo diventarono centomila (il giorno 18 maggio), in diecimila
a Shaoyang e Wuhan (il 19 maggio), in centomila a Guiyang nel sud-ovest (il 18 maggio), in ventimila a Chongqing
(il 20 maggio), in sessantamila a Shanghai (il giorno 23 maggio), in trentamila
a Nanchino (il 28 maggio), in trentamila a Changsha nella regione
centro-meridionale.
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In
questi territori le proteste si affievolirono verso fine maggio, ma solamente
perché i manifestanti raggiunsero Piazza Tienanmen per continuare la protesta.
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Le
direttive di Li Peng, che inviò 300 mila uomini nella Capitale, insieme alle
divisioni corazzate, furono di stroncare senza pietà la mobilitazione
studentesca, ricorrendo alle armi e alla violenza.
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Tra
il 4 e il 6 giugno 1989 moltissime vittime, che alcune stime indicano dalle
centinaia alle decine di migliaia di unità, caddero sotto i colpi delle armi
automatiche, oppure schiacciate dai mezzi cingolati degli aguzzini comunisti.
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Wu’er Kaixi, uno dei tre maggiori leader della protesta
insieme a Wang Dan e Chai Ling, fu
costretto a scappare in Francia, poi negli Stati Uniti e infine a Taiwan dove
vive in esilio con la moglie e i due figli.
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Wang Dan venne condannato a scontare 11 anni di prigione,
poi nel 1998 fu esiliato.
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Wu’er racconta che il regime comunista ha trasformato la
Cina in un vero e proprio Stato di “polizia” nel quale ha concesso al Popolo
una apertura di tipo economico in cambio di una completa sottomissione
politica, negando così una qualunque forma di dissidenza verso il Partito.
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La costante manipolazione comunista sulle coscienze
popolari ha condotto le masse cinesi a disinteressarsi oggi dei fatti del 1989,
fornendo loro nuovi strumenti di management imprenditoriale basati sulla
liberalizzazione di prezzi e abbandonando il controllo statale diretto sulle imprese, passando da una economia di tipo socialista ad un'altra denominata "economia socialista di libero mercato".
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Tutto ciò condusse verso una corruzione dilagante in cui
solamente coloro che avevano rapporti diretti con la tecnocrazia politica del
partito comunista potevano arricchirsi, a discapito però dei lavoratori,
privati definitivamente di qualsiasi diritto o garanzia.
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Il “Grande fratello” raccontato da Orwell è oggi in Cina
una cruda e triste realtà, tangibile e asfissiante, prodromica a altre e ancor più
nefaste devianze di cui è intriso l’apparato criminale comunista, come la
deportazione nei Laogai, la privazione della libertà, l’annichilimento della
personalità, la tortura, la malvagità e il sadismo.
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Il web, che normalmente appare nel mondo come strumento di
comunicazione e di informazione universale, è tenuto in Cina sotto costante
controllo e assoggettato ad una spietata censura governativa.
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In questo modo il regime cancella ogni riferimento a fatti come quelli
di Tienanmen o a proposizioni del dissenso anticomunista cinese, e falsa la
realtà dei fatti in un continuo e mai sopito disprezzo per i diritti umani.
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Dissenso
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